Rifugiati congolesi in Sudafrica: fra mutuo aiuto e rivendicazioni identitarie

Stefano Allovio

Dipartimento di Filosofia “Piero Martinetti”, Università degli Studi di Milano


Abstract

At the end of the last century, post-apartheid South Africa opens up to the world and international law on political asylum. At the same time, Mobutu’s Zaire collapses. This historical conjuncture is at the origin of a major migration flow of Congolese to southern Africa that has marked the last decades. The essay focuses on the community of Congolese in Cape Town showing their great creativity in establishing mutual aid associations. Some of these associations are geared toward imagining and achieving, at least in the diaspora, that unity of the Congo that remains a utopia in the homeland.  

Keywords : Congo; diaspora; migration; mutual aid associations


Migranti congolesi in Sudafrica

Nel corso del Novecento, le storie migratorie dei congolesi della diaspora, le loro dinamiche transnazionali e le loro elaborazioni culturali si dipanano lungo un consolidato asse spaziale. Questo asse coinvolge l’Africa e l’Europa, le città di Kinshasa e Brazzaville da un lato e le città di Bruxelles e Parigi dall’altro. Si tratta di un asse che permette di collegare, appunto, molte storie novecentesche: la colonizzazione, le interdipendenze degli immaginari, le lotte per le indipendenze e le arene nazionali dell’Africa postcoloniale.

Negli ultimi decenni, l’asse Congo-Europa non è più sufficiente per dar conto di un quadro globalmente frantumato e attraversato da nuove aperture, nuove chiusure e nuovi immaginari. La diaspora congolese del nuovo millennio schiude a nuovi scenari. Fra questi assume una rilevante centralità il Canada, molto meno impaurito e incattivito rispetto a un’Europa sospettosa e in preda a una ormai cronica “psicosi da assediamento”, e poi parte dell’Africa stessa, al cui interno si evidenziano alcuni poli di attrazione dei flussi migratori congolesi: 1) i paesi limitrofi (per esempio l’Uganda) dotati di una certa solidità sociopolitica e facilmente raggiungibili dalle zone orientali della Repubblica Democratica del Congo, dove si è combattuta una sanguinosa guerra che ha prodotto morti e fiumane di fuoriusciti; 2) il Sudafrica del dopo-apartheid traghettato da Nelson Mandela nell’alveo della comunità internazionale e desiderosa di mostrare la ritrovata “civiltà” applicando principi giuridici nobili quali il diritto d’asilo.

A cavallo del vecchio e del nuovo millennio, quindi, per molti congolesi il ponte che collega il proprio Paese all’Europa non ha avuto più la forza di alimentare gli immaginari e i sogni. Molto meglio, per esempio, connettersi al sogno e ai nuovi immaginari di una “nazione arcobaleno” (così è stato denominato il nuovo corso sudafricano) dotata di una notevole forza economica e di istituzioni statali (scuola e sanità) di buon livello. Molti congolesi, quindi, hanno raggiunto le regioni meridionali dell’Africa nel periodo successivo alla caduta del regime segregazionista.

In realtà, migranti congolesi in Sudafrica ne giunsero anche nei decenni precedenti alla svolta impressa dal Presidente Mandela e, ancora più in generale, occorre rilevare che l’intera storia della nazione sudafricana, al di là dell’immagine di chiusura spesso collegata ad essa, è una storia di immigrazioni.

A partire dalla prima metà dell’Ottocento, molti lavoratori migranti originari dalle differenti regioni interne e dai paesi limitrofi migrarono verso le fattorie dei bianchi [Wentzel, Tibela 2006, 72; Trimikliniotis, Gordon, Zondo 2008, 1327]. Quando alla fine dell’800 vennero scoperti importanti giacimenti di oro e di diamanti nella regione del Transvaal (a maggioranza boera), si intensificarono gli arrivi di lavoratori migranti non qualificati dai paesi limitrofi o dalle aree rurali del paese [Harris 1994]. Questi flussi contribuirono da un lato al processo di urbanizzazione delle regioni minerarie e dall’altro furono il pretesto per intensificare le politiche di controllo e di segregazione dei lavoratori neri (sudafricani immigrati da aree rurali o africani originari da paesi limitrofi).

Le ricchezze minerarie non attrassero soltanto forza lavoro africana, ma migranti dall’Europa, soprattutto inglesi, i cui interessi si saldarono a quelli dei britannici che già occupavano da tempo la Colonia del Capo. Le tensioni fra boeri e britannici culminarono nella seconda guerra anglo boera (1899-1902) che sancì l’annessione delle repubbliche boere all’Impero britannico e la successiva costituzione dell’Unione Sudafricana nel 1910.

Nell’ambito di ciò che Veronica Federico [2009, 31] definisce “un eccesso di legislazione” registrabile nei primi decenni di vita della nuova nazione unificata, emerge la volontà di affinare il sistema di segregazione e discriminazione razziale e di conseguenza la ferma determinazione nel controllo dei flussi migratori. Da un lato si legifera per favorire il più possibile l’arrivo di migranti bianchi “assimilabili” e utili a incrementare la percentuale di popolazione di “razza bianca”; dall’altro, si cerca di normare l’afflusso di “mano d’opera nera”, non “assimilabile”, ma fondamentale per garantire forza lavoro a basso costo. La distinzione fra immigrati bianchi passibili di diventare “cittadini” sudafricani e immigrati neri ai quali venivano concessi permessi solo temporanei, risulta ulteriormente rafforzata dagli interventi legislativi degli anni ’50 e ’60 del Novecento, anni in cui la politica dell’apartheid propriamente detta ridisegna rigidamente la nazione sudafricana. La folle strategia della separazione che aveva già diviso le aree urbane in zone destinate alla popolazione bianca e lotti abitativi (denominati locations ) destinati alla popolazione nera doveva essere sempre più perfezionata 1 .

Per comprendere appieno le ripercussioni dell’apartheid sui flussi migratori e, come si vedrà fra poco, per contestualizzare i primi arrivi di individui congolesi in Sudafrica, occorre volgere l’attenzione a ciò che accadde nel ventennio successivo alla proclamazione della Repubblica (1961). A fianco di una consolidata politica segregazionista che segnava gli spazi urbani e le relazioni fra gli individui (ciò che comunemente viene nominata “piccola apartheid”), si procedette a una destrutturazione dello Stato che avrebbe garantito, almeno formalmente la separazione definitiva fra bianchi e neri. Questo progetto prese il nome di “grande apartheid” e si tradusse in un’apartheid territoriale su grande scala sulla base del quale lo Stato istituì delle riserve (denominate homelands  o bantustans ) in cui confinare la popolazione nera. Questi territori erano poveri di risorse, frammentati a macchia di leopardo su aree molto vaste e formalmente riconducibili a specifici gruppi etnici. A ogni individuo nero venne attribuita la cittadinanza dell’ homeland  ritenuto corrispondente alla sua presunta affiliazione etnica, e quando nel 1976 quattro homelands  (Traskei, Bophutatswana, Venda e Ciskei) vennero dichiarati Stati indipendenti, nove milioni di neri sudafricani persero la cittadinanza sudafricana ritrovandosi improvvisamente stranieri nel proprio paese.

La situazione divenne esplosiva: la segregazione interna risultò presto socialmente ed economicamente insostenibile, le rivolte nelle townships  e gli stati d’emergenza segnarono la vita sociale dai primi anni ’80; la pressione della comunità internazionale e le politiche di embargo verso il Sudafrica si intensificarono significativamente. In questo quadro, lo Zaire di Mobutu Sese Seko adottò una scaltra e cinica “politica degli interstizi” mantenendo rapporti diplomatici e commerciali con il Sudafrica sotto embargo e garantendo, verso il paese razzista, un flusso di emigranti congolesi aventi particolari competenze professionali (insegnanti, ingegneri, medici). Molti di questi immigrati trovarono lavoro nei bantustans  dove specifiche skills erano necessarie [Steinberg 2005, 23], ma non potevano essere garantite né dalla comunità nera locale (non opportunamente formata) né dai sudafricani bianchi che stavano il più possibile alla larga dai bantustans  

L’immigrazione congolese verso il Sudafrica, iniziata negli anni ’80, si intensificò negli anni ’90 del secolo scorso quando a una classe media di professionisti si unirono commercianti, uomini d’affari e trafficanti di ogni specie in fuga dal crescente dissesto socio-politico dello Zaire. Sulla base delle scarse fonti disponibili, si ipotizza che nel 1992 vivessero in Sudafrica circa 23.000 congolesi [Kadima, Kalombo 1995, citati in Steinberg 2005; Kadima 2001]. A questi si aggiunsero molti altri connazionali che approfittarono delle aperture formali del nuovo Sudafrica di Mandela (eletto Presidente della Repubblica nel 1994) per abbandonare il proprio Paese alle prese con gli ultimi atti del regime di Mobutu (deceduto nel 1997) e una tragica crisi regionale connessa alle note vicende rwandesi.

Insomma, lo Zaire “crolla” negli stessi anni in cui il Sudafrica “risorge” aprendosi al resto del continente anche attraverso la promulgazione del Refugee Act (1998) 2  che permetterà a molti congolesi di fuggire nell’estremo lembo meridionale dell’Africa con la speranza di essere riconosciuti come rifugiati. Questa congiuntura storica, avvenuta negli anni ’90, inaugura una direzione del tutto particolare per la diaspora congolese.

Ovviamente, a raggiungere il Sudafrica post-apartheid non sono soltanto i congolesi. Migliaia di migranti, i più senza documenti, arrivarono dai paesi limitrofi (in particolare dal Mozambico, dallo Zimbabwe e dal Lesotho). Le stime numeriche sono molto complicate da ottenere e soggette a strumentalizzazioni politiche, ma si pensa che solo negli anni fra il 1994 e il 1996 entrarono circa 5 milioni di immigrati “irregolari” provenienti da altri paesi africani [Trimikliniotis, Gordon, Zondo 2008, 1325].

Nonostante le aperture formali e reali, fin da subito il nuovo Sudafrica si mostra meno accogliente di quanto si potesse immaginare e al perdurare di eventi che si collocano in piena continuità con il recente passato (la violenza e la brutalità di poliziotti bianchi contro individui neri) si aggiunge una nuova evidenza: la xenofobia dilagante. Le violenze contro gli stranieri (neri emigrati da altri paesi dell’Africa) vengono perpetrate non più soltanto dalle istituzioni di controllo dello Stato, in cui permangono pratiche ereditate dal passato segregazionista [Crush 2000; Crush, Mc Donald 2001] ma, in certi casi, dagli stessi neri sudafricani marginalizzati, molti dei quali temono la “concorrenza” degli stranieri alle loro aspettative di mobilità sociale e superamento della drammatica situazione precedente.

Soprattutto dopo le violenze xenofobe del maggio 2008, quando si registrarono 62 morti e 30.000 dislocamenti, il nuovo Sudafrica si è trovato a riflettere su un sogno di inclusione infranto, le cui motivazioni, paradossalmente, affondano le radici nel passato segregazionista e in un progetto di “nazione arcobaleno” che ha lasciato enormi diseguaglianze sociali [Hassim, Kupe, Worby 2008; Landau 2010] e una ossessione per la questione razziale che, in un certo senso, permane nelle retoriche e nelle politiche di coloro che si impegnano a costruire una società non razzializzata. Come riporta Michael McDonald [2006, 177] il nuovo Sudafrica non è stato de-razzializzato, ma multi-razzializzato, e a farne le spese sono soprattutto i migranti provenienti da altri paesi africani.

Da ciò che si evince dalla letteratura esistente e dalla mia stessa esperienza sul campo 3 , i congolesi emigrati e rifugiati in Sudafrica, nonostante le difficoltà incontrate, riconoscono i punti di forza del paese ospitante soprattutto in confronto ad altre ipotetiche destinazioni interne al continente: buone scuole, buon sistema sanitario, dinamicità economica 4 . Rispetto a un’Europa costantemente bramata, ma sempre più chiusa e diffidente verso gli immigrati, il Sudafrica ha rappresentato, in tempi a noi vicini, una meta più facile da raggiungere, una destinazione geograficamente distante dall’Europa, ma idealmente collocata a metà strada fra quest’ultima e l’Africa interna; una destinazione che, oltretutto, proietta il migrante congolese verso una dimensione globale dell’anglofonia, foriera di opportunità per agire strategicamente in un mondo interconnesso [Bouillon 1997, Steinberg 2005]. Per molti congolesi il Sudafrica è vissuto come un luogo di transito momentaneo in attesa di poter raggiungere l’Europa, il Nord America o l’Australia [Bouillon 2001, 47, Owen 2015, 51] anche se, nella realtà, i progetti di parziale radicamento nel paese ospitante prevedono ricongiungimenti famigliari, coinvolgimento in carriere scolastiche e ambizioni di mobilità sociale connesse a nuove opportunità lavorative. Tutti coloro che ho avuto modo di conoscere durante la ricerca sul campo sognano soprattutto di fare ritorno nella Repubblica Democratica del Congo.

Fra i congolesi di Cape Town

Venendo alla mia esperienza diretta sul terreno, mi preme ricordare che il primo soggiorno a Cape Town (maggio 2015) era inizialmente svincolato dalle questioni congolesi precedentemente indagate a Kimbanseke (la municipalità periferica della regione di Kinshasa), ovvero, le forme associative di mutuo soccorso. Nonostante ciò, il caso volle che poche settimane prima del mio arrivo avvennero tragici attacchi xenofobi nelle città di Durban e Johannesburg con uccisioni di stranieri provenienti da altri paesi africani per mano di sudafricani neri. Anche a Cape Town ci si interrogava dell’accaduto, sulla stampa nazionale se ne parlò a lungo e la questione dell’accoglienza di immigrati nella nuova “nazione arcobaleno” non poteva di certo essere elusa dal sottoscritto soprattutto da quando, del tutto casualmente, entrai in contatto con immigrati e rifugiati provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo.

L’idea di prendere congedo dalle questioni congolesi fallì miseramente. Forse, in fin dei conti, era quello che volevo. Non restava altro da fare che provare a organizzare il lavoro di campo. A tal fine, un aiuto fondamentale mi fu dato da Etienne, un rifugiato congolese originario del Kasai, che conobbi allo Scalabrini Centre di Cape Town, una istituzione impegnata nella promozione dell’integrazione sociale, economica e culturale di migranti, rifugiati e sudafricani nella società locale.

Etienne mi fece conoscere Albert e altri membri della Communité Congolaise du Kasai (CCK); io volevo sapere delle associazioni, loro volevano parlare con me del Congo. Io volevo capire qualcosa in più sul presente dei congolesi in Sudafrica, loro volevano discutere con me del futuro del Congo.

Inizialmente fra noi, nelle nostre conversazioni, c’era un problema di scala: a me interessava la loro vita associativa, a loro interessava il destino della Repubblica Democratica del Congo. Ognuno ha le sue priorità e le mie, in qualità di ricercatore, parevano essere ai loro occhi quisquiglie e bazzecole rispetto ai destini di una Nazione dove sognavano di fare ritorno.

A partire dal 2016 ebbi la possibilità di partecipare agli incontri della CCK, conobbi gli animatori della Societé Civil de la Diaspora Congolaise fra i quali Esaie, ebbi modo di incontrare Richard e Placide (una donna eccezionale, fondatrice di una organizzazione che raggruppa donne congolesi) entrambi della Congolese Community of Western Cape; trascorsi molto tempo con Guillaume e soprattutto con Bienvenue e con tutti i loro connazionali taxisti che si ritrovano in Riebeeck Street, in attesa di clienti e con un antropologo spesso fra i piedi. In un piccolo bar situato in St. George’s Mall feci la conoscenza di Olivier, originario del Katanga, che si guadagnava da vivere lavorando in una agenzia di transfer money di uno zimbabwese e successivamente lavorando alla cabinovia della Table Mountain. La sua passione è il giornalismo e il progetto realizzato, di cui va fiero, è un preziosissimo giornale stampato a Cape Town: “Congo Square News”. Di ComCongo (Communaute Congolaise) conobbi Bachot in un salone di una chiesa pentecostale a Table View e Delphin in un fastfood. Zemba, un artista congolese, mi fece conoscere i membri di MUREMA (Mutualité de Ressortissant de Maniema) e mi accompagnò a Woodstock a una loro riunione, in una delle mie ultime giornate trascorse in Sudafrica nel 2018.

Molti congolesi ebbero la gentilezza di accogliermi nelle loro abitazioni a Salt River, a Athlone, a Parow, a Capricorn e in altri quartieri collocati nei Northern Suburbs e nei Cape Flats. La Cape Town dei congolesi iniziò lentamente a prendere forma in una sorta di mappa mentale che, vista idealmente dall’alto, lasciava intravedere una logica di insediamento molto particolare e strettamente connessa alla divisone “razziale” che segna tuttora Cape Town. A conferma dei dati che stavo raccogliendo sul campo venne in soccorso la lettura del volume di un antropologo danese [Jensen 2008] incentrato sullo studio della vita quotidiana a Heideveld (una township nei Cape Flats abitata principalmente da coloured 5 ) con un focus particolare sui membri delle gangs. Jensen, schematizzando con l’aiuto di una carta che qui riporto (Fig.1), ricorda quanto Cape Town sia innanzitutto da comprendere a partire dalla correlazione esistente fra distanza dal centro città, vero luogo di concentrazione delle attività economiche, e distribuzione abitativa delle componenti “razziali” eredi della classificazione segregazionista: i bianchi, occupano in buona parte le zone dei sobborghi meridionali e settentrionali più vicini al centro. I coloured occupano massimamente alcuni quartieri dei sobborghi più a est e parte dei Cape Flats, la parte piatta e ventosa della città, dove sono presenti, ancor più lontano dal centro della metropoli, le township occupate principalmente dai neri come Guguletu, Mitchells Plain e Khayelitsha.

La quasi totalità delle soluzioni abitative dei congolesi che ho conosciuto a Cape Town si colloca nella “fascia coloured” della città. Da un punto di vista abitativo, la loro è una “politica degli interstizi” che permette di incunearsi fra un mondo bianco che, seppur inarrivabile e spesso razzista, rappresenta un ampio e diversificato contesto di opportunità lavorative, e un mondo nero che, seppur contiguo sotto tanti aspetti, rappresenta un mondo parzialmente xenofobo e privo di opportunità lavorative. Nei quartieri coloured molti immigrati, non solo congolesi, ritrovano l’interstizialità, la mescolanza e, in ultimo, la condivisione di spazi e opportunità.

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Fig. 1

Non è un caso che un importante lavoro etnografico sui congolesi a Cape Town [Owen 2015] sia stato condotto da una antropologa, Joy Owen, cresciuta nel sobborgo coloured denominato Retreat. Con una bisnonna originaria dell’isola di St. Helena, una nonna di origine tedesca dislocata forzatamente da District Six e altri avi originari di Giava (Indonesia), l’antropologa sudafricana Joy Owen incorpora i segni e la memoria di molteplici migrazioni e pratiche di convivenza, sicché la scelta di indagare la vita sentimentale e affettiva di alcuni congolesi e delle loro compagne sudafricane nei sobborghi di Muizenberg pare essere una scelta comprensibile e consona.

Aiuto reciproco e associazionismo

Come si evince dal testo di Joe Owen, i congolesi rifugiati in Sudafrica, tessono legami e intrattengono relazioni con la popolazione locale. Nonostante ciò, essi non rinunciano a intrecciare le proprie vite a quelle di altri congolesi e, non di rado, lo fanno attraverso la costituzione di associazioni o gruppi informali. Pur essendo consapevole della precarietà e provvisorietà di ogni ordine tipologico, ritengo utile introdurre una sorta di classificazione delle mutualità rinvenute a Cape Town:

  1. Gruppi di individui che si associano in modo spontaneo e non strutturato, in cui si realizzano pratiche di mutualità mirate e circoscritte nel tempo. Rientra in questa casistica il Likelemba , ovvero l’associazione temporanea di credito a rotazione (ROSCA, denominate “ tontine ” in Africa occidentale).
  2. Mutualità a base etnico-territoriale, ovvero che raggruppa coloro che sono originari di una certa città o regione del Congo, parlano una specifica lingua e si auto ascrivono a uno specifico gruppo etnico. A Cape Town, questo tipo di associazione di mutuo soccorso è la più diffusa.
  3. Mutualità, con o senza base etnico-territoriale, che raggiunge un livello importante di strutturazione e di ampiezza, tale da trasformarsi in organismo non governativo (ONG) che opera in un quadro giuridico stabilito dal paese ospitante.
  4. Associazione (al cui interno sono spesso previste piccole reti di mutuo soccorso) che nasce e ambisce ad aver un ruolo di coordinamento. Essa si basa spesso su una visione utopica presentata attraverso il linguaggio della network society  e della platform society  [van Dijck, Poell, de Waal 2019] e non è un caso che aspirino a diventare “piattaforme” (reali e virtuali) del vario associazionismo congolese frammentato.

Vediamo ora di entrare maggiormente nei dettagli.  Da ciò che ho potuto constatare a Cape Town una delle questioni centrali che, almeno inizialmente, favorisce la nascita di associazioni di mutualità fra congolesi è la gestione del cadavere, il supportarsi vicendevolmente nelle spese funerarie. Molti congolesi come, per esempio, i giovani che si trovano a giocare a calcio la domenica a Observatory (sobborgo meridionale di Cape Town), i taxisti di Reabeek Street, gli amanti della Sape di Cape Town di cui racconta Christopher Clark [2016] si sono strutturati (alcuni in modo più formalizzato di altri) in occasione di una raccolta di denaro per supportare le spese funerarie di un componente del gruppo. Anche la Mutualité des Ressortissants du Maniema a Cape Town è nata per tale motivo:

“MUREMA è nata nel 2003. Mio padre era appena morto in Congo ed io ero già qui in Sudafrica e non potevo rientrare, allora si è pensato di fare una associazione aperta a quelli che sono originari del Maniema” (past-president della mutualità, 13 maggio 2018).

Il fatto che la diaspora congolese in Sudafrica sia una manifestazione recente e segnata da continui mutamenti, da mobilità e da flessibilità, ha favorito l’osservazione dei processi di ideazione e di istituzione delle associazioni mutualistiche, non di rado segnati da fallimenti. Significativo al riguardo è il tentativo fatto da Marshall e da alcuni suoi amici di convincere più di duecento congolesi insediati nella township di Capricorn (vicino a Muizemberg) a costituire una mutualità.

“Qui a Capricorn ci sono 243 congolesi, arrivano da tutto il Congo. Noi abbiamo problemi di lavoro, di soldi quindi tanti non vogliono discutere dei problemi degli altri. Abbiamo proposto un programma che inizialmente doveva riguardare noi qui e dopo occuparsi del Congo. Abbiamo provato a raccogliere un rand al giorno per tre mesi. Si passava casa per casa con un quaderno e si segnavano i nominativi di coloro che versavano il rand. Spiegavamo che se si fosse versato il Rand ci si sarebbe potuti poi rivolgersi al gruppo per funerali o altro. Qualcuno versava [il denaro] altri no. Non ha funzionato” (Marshall, 10 maggio 2016).

A quel punto, Marshall e gli altri ideatori della mutualità abbandonarono il progetto optando per un semplice likelemba  organizzato fra una decina di individui. Un piccolo gruppo di mutuo aiuto, utile a disporre ogni mese, a rotazione, di una pur piccola somma di denaro per far fronte minimamente a una situazione di estrema povertà.

Per ritenersi membri di queste associazioni mutualistiche occorre mensilmente versare la quota associativa e, all’occorrenza, versare altro denaro per i funerali e i matrimoni o per pagare le spese legali degli affiliati che hanno problemi con la giustizia sudafricana o ancora per sostenere la famiglia nel caso di una lunga assenza dal lavoro salariato di un membro.

Alcune associazioni mutualistiche congolesi indagate a Cape Town sembrano molto attente al confronto continuo con le istituzioni statali attuando da una parte una sorta di “politica degli interstizi” – ovvero, soddisfare bisogni che i congolesi espatriati non possono facilmente ottenere nel paese ospitante – e dall’altra, favorendo il proprio riconoscimento presso le istituzioni in qualità di interlocutori privilegiati e mediatori fra la comunità congolese e lo Stato sudafricano. A tal fine, alcune associazioni mutualistiche di congolesi a Cape Town hanno l’ambizione di trasformarsi in organismi non governativi, in quanto, l’ONG è il mezzo giuridicamente più efficace al fine di essere riconosciuti dallo Stato sudafricano e aumentare realmente le possibilità di azione sociale ed economica, anche nei confronti di potenziali finanziatori esterni. È il caso dell’associazione AMISBK (Les Amis des Bukavu) e della CCWC (Congolese Community of Western Cape) trasformatisi in ONG.

AMISBK è una delle associazioni congolesi meglio organizzate che operano a Cape Town, possiede una pagina Facebook e un sito internet; dal 2010 è ufficialmente riconosciuta come ONG. Nell’agosto del 2018 ho incontrato il presidente nella sua abitazione sita nei sobborghi di Cape Town. Essa, come si evince dalla denominazione, nasce per raggruppare i congolesi originari di Bukavu, successivamente si apre ad altri membri provenienti dal Kivu e dal Maniema. AMISBK annovera circa 150 membri che versano nelle casse dell’associazione 50 Rand al mese e si impegnano nell’effettuare versamenti supplementari in specifiche occasioni come i matrimoni e i funerali. Si ritrovano l’ultima domenica di ogni mese e, generalmente dopo Natale, si organizza una festa e si relaziona su quanto fatto durante l’anno. Lo scopo è il mutuo soccorso (anche nei confronti di congolesi che non fanno parte dell’associazione), ma le attività sono molteplici: corsi di formazione (matematica e scienze), promozione dello sport come strumento di inclusione fra rifugiati e locali, organizzazione di conferenze e gite di istruzione per i bambini.

CCWC è anch’essa una importante associazione di congolesi rifugiati a Cape Town. Incontrai l’allora presidente nel maggio del 2016 nel sobborgo meridionale di Athlone. L’associazione si è riorganizzata nel 2013 ottenendo lo statuto di ONG; ha più di 70 membri che si sostengono a vicenda per spese funerarie, assistenza legale successiva all’arresto, supporto alle famiglie nei momenti di interruzione del salario. Anch’essa ha una pagina Facebook e i membri si tengono in contatto per mezzo di un gruppo WhatsApp. Benché l’associazione abbia un suo ruolo nella comunità congolese di Cape Town e sia incubatrice di molte iniziative, il presidente non nasconde le problematiche connesse al mutuo soccorso: in primis il non rispetto del versamento delle quote mensili e l’ambizione personale di alcuni detentori di cariche a scapito del bene collettivo.

Un elemento centrale nelle associazioni di congolesi con cui ho avuto contatti a Cape Town è la politica in senso lato: esse rappresentano un’arena privilegiata per discutere del Congo e immaginare un futuro migliore per la lontana Patria. Nel momento in cui i congolesi in Sudafrica riconoscono la concretezza (la realtà, l’efficacia) dello Stato sudafricano e negoziano strategie e bisogni, ecco che trova spazio un pensiero utopico su ciò che dovrebbe garantire l’unità di tutti i congolesi in una Patria (il comune Stato congolese) la cui storia è un susseguirsi di frammentazioni, tentativi secessionisti e guerre interne.

Fra le differenti associazioni di rifugiati e immigrati congolesi rintracciate a Cape Town ve ne sono alcune che sembrano incorporare più di altre l’ambizione di “unire” e rappresentare tutti i congolesi di Cape Town, ovvero, svolgere il ruolo di “piattaforma” in cui individui, gruppi, associazioni possano riconoscersi. In realtà, sono davvero molte le associazioni che ambiscono al ruolo di piattaforma, ma trasformandosi in ONG e prendendo posizione in termini politici (come, per esempio, CCWC) hanno dovuto rinunciare a qualsiasi velleità di rappresentare tutta la comunità di congolesi di Cape Town.

Chi sembra accollarsi l’onere di questo ruolo è la Societé Civil de la Diaspora Congolese en Afrique du Sud, i cui leader ho incontrato presso la loro sede (Scalabrini Center) nel maggio del 2016. Lo scopo – come specifica uno di loro, Pierre – è di “favorire un contesto di collaborazione pacifica e democratica alle organizzazioni dei congolesi di Cape Town”. I responsabili sono intellettuali che ambiscono a incrementare il senso di consapevolezza politica dei connazionali della diaspora. Pierre è un anziano saggio che non disdegna argomentare i differenti posizionamenti sulla base di analisi storiche e sociali; Roger era, in patria, professore universitario di lingua inglese e ora tiene corsi allo Scalabrini Center per insegnare la lingua ai piccoli congolesi e ai loro pari età sudafricani (neri) che conoscono solo l’afrikaans. Esaie, il segretario Generale dell’associazione, ebbi occasione di incontrarlo più volte durante i miei soggiorni e mi ha aiutato non poco a ragionare su quanto era di mio interesse.

All’interno di associazioni come quest’ultima è possibile rintracciare un particolare modo utopico di immaginare la comunità congolese, dove l’utopia prende la forma di una aspirazione all’unità la quale ha radici profonde nella storia politica congolese segnata da divisioni e regionalismi. Anche a Cape Town i congolesi sognano e aspirano [Appadurai 2004] all’unità; ma è proprio in questi particolari contesti migratori, in cui convivono congolesi provenienti da regioni differenti, con diverse storie alle spalle e differenti sensibilità politiche, che l’unità prende le sembianze di una utopia, ovvero, di un progetto auspicato che deve fare i conti con il perdurare di conflittualità e di tensioni fra congolesi. Da questo punto di vista le associazioni mutualistiche si differenziano molto: alcune hanno una base etnica e territoriale (come è il caso di AMISBK e MUREMA), altre aspirano, appunto, a rappresentare l’unità di tutti i congolesi della diaspora insediati in una città o in una regione (come è il caso della CCWC) diventando una sorta di associazione “piattaforma”.

Molte di queste associazioni “piattaforma” di Cape Town non esistono ancora o sono in fase di progettazione. Emblematico è il caso di Comcongo. Communauté Congolaise . La mission è chiaramente espressa sul loro sito internet (www.comcongo.org): “preserve unity of the Congolese diaspora diversity in a single community”. I membri con cui ho parlato riconoscono la frammentazione dei congolesi, ritengono poco utili le associazioni che nascono su basi etniche, politiche o religiose e aspirano ad essere la piattaforma di tutte le associazioni congolesi che però devono essere ripensate totalmente. Ipotizzano un sistema a branches (rami) con comunità di base in ogni quartiere. La struttura organizzativa è estremamente complessa e prevede differenti livelli e ramificazioni con centinaia di partecipanti. In realtà, al momento della ricerca (e suppongo ancora oggi) esisteva solo un piccolo nucleo di una ventina di persone di Table View. La sensazione che ho avuto è quella di un progetto fortemente teorico e utopico, utile a pensare l’intera comunità congolese che poggia su una ideale reticolo associativo di cui però gli ideatori conoscono e vivono solo un piccolo frammento rappresentato dalla propria associazione mutualistica.

Il Congo allo specchio  

Il desiderio, continuamente disatteso, di un Congo unito affonda le sue radici nelle vicende che seguirono l’Indipendenza dal Belgio (1960). Al di là del persistere di una struttura politica e amministrativa centralizzata, la storia del Congo (Repubblica del Congo, poi Zaire e ora Repubblica Democratica del Congo) è stata caratterizzata da spinte secessioniste e interessi etnici-regionali che si innervano lungo fratture determinate non solo da questioni interne, ma anche e soprattutto da forti interessi geopolitici ed economici.

Il sogno nazionalista e di liberazione di Patrice Lumumba (Primo Ministro, dopo l’Indipendenza) si infrange contro la volontà delle forze coloniali e neo-coloniali di mantenere il ricco stato africano in una posizione di subalternità; a ciò si aggiunge il fatto che tribalismi e separatismi risultano funzionali al mantenimento di uno Stato fragile e segnato da una lacerante guerra civile. Sarà soltanto con il colpo di stato del 1965 di Mobutu (garante degli interessi occidentali) che in Congo viene ristabilita una fragile unità.

Pur in un quadro di formale unità nazionale, Kinshasa da una parte e le regioni sud-orientali dall’altra, con le ricche miniere della zona di Lubumbashi, si collocano spesso su fronti differenti nelle dispute che segneranno gli ultimi decenni del Novecento. Nei primi anni Novanta, le regioni orientali del Congo diventano il teatro di uno dei più violenti conflitti armati degli ultimi cinquant’anni a livello planetario che vede inizialmente coinvolte popolazioni sedicenti autoctone contro Tutsi emigrati in Congo in epoca precoloniale e quindi ambiguamente in bilico fra essere percepiti come “veri congolesi” o come rwandesi. Tale conflitto è strettamente connesso al genocidio rwandese del 1994 subito dai Tutsi, la successiva fuga degli hutu rwandesi in Congo e le operazioni militari organizzate da Rwanda e Uganda sul suolo congolese. Queste operazioni militari, il cui obiettivo iniziale era quello di far rientrare i profughi hutu in Rwanda e disinnescare i tentativi di riorganizzazione delle milizie filo-hutu in terra congolese, portarono Laurent Désiré Kabila fino a Kinshasa e determinarono la fine del regime mobutista (Jourdan 2014).

Terminata quella che è passata alla storia come la prima guerra del Congo (1996-1997), Kabila cercò di sbarazzarsi dei suoi alleati ugandesi e rwandesi. Questo portò a nuove ribellioni nell’Est del paese e successivamente nella regione dell’Equateur. Ancora una volta il Congo si trovò diviso: l’Est e parte delle zone centrali controllati da movimenti sostenuti dal Rwanda, il nord-ovest controllato dagli uomini di Bemba con l’appoggio dell’Uganda e a Kabila, con l’aiuto di Angola e Zimbabwe, restava la parte meridionale compresa la regione mineraria del Katanga.

Nel 2001 Kabila venne ucciso in circostanze rimaste poco note; il figlio Joseph Kabila prese il suo posto e ottenne la riconferma cinque anni dopo (e ancora nel 2011). Le elezioni del 2006 videro riaffermarsi antiche fratture, quella più evidente “coincideva più o meno con la frontiera linguistica tra le zone del Congo in cui si parlava il lingala e quelle in cui si parlava lo swahili” [Van Reybrouck 2014, p. 538].

Oggi Cape Town è realmente e metaforicamente il cul-de-sac  dell’emigrazione congolese in Africa australe. Un cul-de-sac reale, dettato dalla posizione geografica rispetto alle vie migratorie verso sud, in quanto non c’è alcun sud più a sud di Cape Town. Qui sono confluiti e convivono congolesi giunti dal Kivu attraverso Tanzania e Mozambico, congolesi originari di Lubumbashi e di Kinshasa, avventuratisi attraverso lo Zimbabwe, congolesi del Kasai transitati dallo Zambia.

Detto ciò, occorre sottolineare il fatto che a Cape Town prende forma anche un cul-de-sac metaforico in cui combattenti e pacifisti, parlanti lingala e parlanti kiswahili, kinois (gli originari di Kinshasa) e lushois (gli originari di Lubumbashi), “allemands” (soprannome dato ai Katangais) e “juifs” (soprannome dato ai Kasaiens), si trovano a convivere, a confrontarsi e a constatare quanto difficile possa essere l’unità dei congolesi.

Non si può affermare con certezza se a Cape Town le distinzioni e le fratture fra congolesi siano più o meno rilevanti rispetto ad altre città del Sudafrica (mancano dati e ricerche al riguardo), ma la sensazione è quella di trovarsi in un cul-de-sac  dove esse risultano particolarmente evidenti, dove è possibile osservarle con chiarezza, dove si sperimenta l’ineluttabilità delle stesse; tale sensazione è diffusa e viene esplicitata fra i congolesi della città. Un amico congolese che ha vissuto per anni in Sudafrica mi disse: “io la questione della divisione [fra congolesi] l’ho capita qui a Cape Town, è qui che si contrappongono perché vivono vicini, anche i matrimoni interetnici sono rari” (Guillaume, 9 maggio 2016). T. (che vuole restare anonimo) sottolinea che “a Durban ci sono molti congolesi dell’est, a Jo’burg [Johannesburg] molti di Kinshasa, mentre a Cape Town c’è un po’ di tutto perché è l’ultimo posto che si raggiunge e tutti ci vengono e poi si scontrano” (T., 17 agosto 2017). A Cape Town la prossimità e le occasioni di incontro e scontro fra congolesi di differente origine sono frequenti. Etienne e Esaie ricordano un incontro organizzato il 23 aprile del 2016 per commemorare la morte di una donna molto attiva nell’associazionismo congolese finito in rissa per divergenze fra i congolesi presenti.

È interessante rintracciare la frammentazione dei congolesi a Cape Town lungo le cesure principali, anche attraverso le pagine del giornale mensile Congo Square News , il quale, come si è già ricordato, è una preziosa voce pubblica che riporta informazioni su parte della comunità della diaspora congolese in città. Nel primo numero, pubblicato nell’agosto del 2011, si dà ampio risalto alle imminenti elezioni politiche nella RDCongo. A pagina 6 è riportato un articolo il cui contenuto è solo apparentemente marginale rispetto alle vicende politiche congolesi. Il titolo non lascia dubbi: Kinois et Lushois croisent le fer. Lo spunto è fornito da un fatto di cronaca avvenuto di recente a Cape Town:

Les ressortissants de Lubumbashi et de Kinshasa se font encore guerre, toujours. La dernière en date remonte en ma connaissance en un samedi soir tout à fait normal, dans une boite de nuit de Cape Town. Deux jeunes Kinois furent conviés par trois copines, invitées à leur tour par deux Lushois. C’est peut-être là, le doux secret du conflit. Mais non, Dira-t-on ! Ne mettez pas ça sur les dos innocents de quelques jouvencelles qui n’ont pensé que s’amuser avec des bien-aimés, tendances confondues ! Et puis chez nous l’invité invite, et mieux, chacun payait une tournée complète de boissons. Les filles ne paient rien, c’est la tradition [Bokoli 2011].

Nel seguito dell’articolo, l’autore esplicita con grande chiarezza come, nel senso comune, prenda forma la distanza e la diversità (caratteriale, linguistica, storica, ecc.) fra Kinois e Lushois. L’articolo si chiude con un appello accorato che si proietta sul Congo intero e sul suo destino politico: “Calmez vos ardeurs Kinois et Lushois, vous êtes tous frères et sœurs!”. Sempre nelle pagine di Congo Square News , è possibile rintracciare articoli che denunciano le tensioni fra congolesi parlanti Lingala e congolesi parlanti Kiswahili, come nel numero di Giugno del 2013 che riporta la notizia di una missione dell’UNHCR (Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite) a Cape Town e di come essa abbia creato attriti all’interno della comunità dei congolesi rifugiati:

Les réfugiés de Cape Town étaient mobilisés la semaine du 11 et du 18 Février à la rumeur selon laquelle le HCR aurait envoyé un représentant pour organiser le processus de réinstallation des réfugiés en Angleterre, au Canada, aux Etats Unis et en Australie. Cette rumeur a suscité des tensions dans la communauté congolaise qui s’est vu divisée en deux camps, les Swahiliphone et les Lingalaphones. Ces derniers se plaignaient de n’avoir pas été considérés aussi comme réfugiés vulnérable et s’en prenaient au Swahiliphone qui les dénonçaient pour n’avoir pas fais partie de leur group [Mulombo 2013].

Nel numero di Febbraio 2015 si intervista il presidente della UNNC (Union of New Nationalists of Congo), una associazione di studenti congolesi di Cape Town che aspirano a superare le divisioni interne fra parlanti swahili e parlanti lingala.

In most South African High Schools where there are Congolese students, they are divided into Swahili and Lingala speakers. They do not speak one another and live as enemies, while sharing a nationality. It is UNNC’s aim to break this barrier and unite the Congolese youth because it believes this will contribute to a brighter future for Congolese’s nation [Nzonzidi Kazika, 2015]

Molti congolesi della diaspora presenti a Cape Town e impegnati nell’associazionismo a supporto dei rifugiati e dei richiedenti asilo, aspirano non solo a condurre azioni in difesa e a supporto dell’unità nazionale in relazione alle divisioni interne, ma anche a vigilare continuamente affinché appartenenti ad altre nazioni non si spaccino per “richiedenti asilo congolesi”. Ciò mi fu estremamente chiaro quando ebbi modo di parlare con Placide, una delle donne più attive dell’associazione CCWC.

Maman Placide (arrivata in Sudafrica nel 2007) è una donna sessantenne con 9 figli, molti nipoti e una intraprendenza fuori dal comune: si dedica alla sartoria, tiene corsi di cucito alle altre donne congolesi rifugiate a Cape Town e nel 2013, con altre donne congolesi, ha fondato l’Organisation de la Femme Congolaise (OFC) in seno alla CCWC. Fra le loro attività si annoverano la pulizia dei luridi locali di registrazione dei rifugiati presso l’Home Affaire, la visita agli orfanotrofi di Athlone, l’assistenza agli anziani, ai newcomers  e a congolesi, senza famigliari al seguito, reclusi nelle prigioni di Cape Town. L’organizzazione, racconta Placide, ha più di venti aderenti originarie di differenti regioni del Congo; si ritrovano due volte al mese e la quota mensile è di 50 Rand 6 .

Una questione nei confronti della quale Placide è molto sensibile è la nazionalità delle affiliate all’Organizzazione e più in generale alle associazioni di congolesi. Così come si vanta di aver smascherato due donne rifugiate rwandesi intenzionate ad aderire all’OFC, segnala l’estremo rigore dell’associazione principale (CCWC) nel richiedere, agli aspiranti membri, la compilazione di un modulo dove occorre dichiarare la nazionalità, la lingua nazionale parlata, la regione di origine. Questo perché, come già accennato poco sopra, molti africani fuggiti in Sudafrica senza documenti avevano più possibilità di ottenere almeno lo status di richiedente asilo con permesso di soggiorno temporaneo solo per il fatto di dichiararsi congolesi, ovvero, individui che stavano fuggendo da una Nazione palesemente coinvolta in una guerra terribile.

“Bisogna interrogare i nuovi aderenti sulla genealogia, fino alla quarta generazione, perché bisogna dimostrare di essere veri congolesi. Ci sono angolani, rwandesi, tanzaniani e congolesi di Brazzaville [congolesi della Repubblica del Congo] che si spacciano per congolesi [congolesi della Repubblica Democratica del Congo]” (Placide, 7 maggio 2016).

Esattamente come per la questione delle divisioni interne, anche nei confronti dei confini esterni, le associazioni congolesi che a Cape Town aspirano a rappresentare l’intera nazione incorporano una preoccupazione di integrità e autenticità congolese. In gioco pare esserci il perimetro territoriale e identitario della Repubblica Democratica del Congo soprattutto in relazione al confine orientale dove le chiare ingerenze rwandesi negli anni di conflitto e la complicata questione dei tutsi congolesi soggetti a progressiva discriminazione (banyarwanda del Kivu del Nord, presenti in Congo dalla metà del Novecento e banyamulenge del Kivu del Sud, presenti in Congo dalla fine dell’Ottocento), hanno determinato un clima di sospetto generalizzato nei confronti della popolazione del Kivu. Al riguardo, non pochi congolesi dell’est (Kivu e in parte Maniema) che ho conosciuto in Sudafrica mi hanno confidato quanto sia sempre arduo dimostrare la propria “congolesità” in quanto si viene spesso accomunati ai “rwandesi conquistatori”.

A Cape Town, i congolesi si raggruppano in associazioni per aiutarsi e, in certi casi, per provare a superare le divisioni. Nel lembo più meridionale dell’Africa, con sullo sfondo una distesa d’acqua immensa in cui si incontrano l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano, il Congo e i congolesi si specchiano. Così facendo, le fratture esistenti e le ricomposizioni auspicate risultano ancora più evidenti.

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1  I famosi quartieri “misti” come Sophiatown a Johannesburg e District Six a Cape Town scomparvero a causa del trasferimento forzato dei neri nelle locations .

2  Con questo atto legislativo il Sudafrica si è allineato ai principi fondamentali della protezione dei rifugiati (libertà di movimento, accesso a scuole e strutture sanitarie, diritto al lavoro). Detto ciò, per l’ottenimento dello status di rifugiato occorre prima ottenere un permesso temporaneo come richiedente asilo. Negli ultimi anni, i tempi per ottenere il passaporto di rifugiato o semplicemente per rinnovare il permesso temporaneo si sono allungati a dismisura lasciando migliaia di congolesi in una condizione di incertezza che determina un incremento della precarietà e una diminuzione delle opportunità di lavoro, relegandoli ai margini di una fragile economia informale.

3  Con l’intento di estendere fra i congolesi della diaspora una ricerca svolta in precedenza a Kinshasa inerente le associazioni di mutuo soccorso, ho trascorso quattro periodi di ricerca a Cape Town dal 2015 al 2018 (maggio-giugno 2015, aprile-maggio 2016, agosto 2017, maggio 2018).

4   Sulla base dei dati ONU riportati in un prezioso report sui flussi migratori dei congolesi nel periodo 1990-2015 [Flahaux, Schoumaker 2016], si evince come l’emigrazione di congolesi verso il Sudafrica registri, nel nuovo millennio, l’incremento percentuale maggiore rispetto a qualsiasi altra destinazione interna al continente (8.208 nel 2000, 70.077 nel 2015).

5  Il termine “coloured” denomina uno dei quattro gruppi “razziali” così come sono stati formalizzati durante il regime di apartheid. Si riferisce a un gruppo piuttosto diversificato che racchiuderebbe i discendenti degli schiavi – originari della Malaysia, dal Madagascar e dal Mozambico – portati in Sudafrica dai coloni olandesi.

6  L’esperienza della OFC è un caso molto particolare nel panorama dell’associazionismo congolese di Cape Town; nonostante ciò, ho sempre rilevato la presenza femminile, benché non maggioritaria, nelle differenti mutualità incontrate. In un recente articolo (Nyamnjoh, Hall, Cirolia 2022) si sottolinea come le donne congolesi di Cape Town, coinvolte nell’indagine, abbiano una “tendenza individualista” e disinteresse verso forme associative. Questo viene registrato come un elemento di contrasto con la comunità camerunense al Capo. In considerazione del fatto che l’intero articolo in questione è basato sulle interviste (quasi tutte telefoniche) a cinque donne congolesi, le interessanti ipotesi avanzate meriterebbero, da parte delle autrici, ulteriori verifiche e approfondimenti.