Il lato quotidiano dell’islamofobia. Micro-razzismo a scuola tra differenzialismo culturale e razzismo spirituale

Fabio Vicini

Dipartimento di Scienze Umane, Università degli Studi di Verona


Abstract

The paper explores everyday forms of racism toward sons and daughters of Muslim migrants born or raised in Italy since the late 1990s and early 2000s by shedding light on recent debates on Islamophobia in Italy and Europe. Based on my interlocutors’ narratives about their experiences of racism at different levels of education, the paper shows how these experiences significantly impacted their identity paths. The case is initially read through the lens of anthropological literature on cultural racism to introduce the discussion of another way of marking difference that seems particularly apt to describe long-standing forms of discrimination against ethnic-religious minorities in Europe: spiritual racism. Then, the paper introduces the notion of “micro-racism” to shed light on how Islamophobia is reproduced in an elusive and almost imperceptible way in daily interactions with teachers and peers, especially since middle school. Defining these forms of racism as “micro” is not meant to belittle the phenomenon but to point to its specificity. It is useful to highlight the particular ways in which ethnoreligious difference is marked in a context like Italy where minorities are relatively less visible than in other European countries. Finally, the paper refers to recent academic discussions on femonationalism, yet by moving the analysis from the level of public discourse to that of daily interactions between female teachers and students especially.

Keywords : “second generations”; Islamophobia; spiritual racism; Muslims in Europe; femonationalism


Introduzione

Il presente articolo vuole essere un contributo allo studio del razzismo quotidiano nei confronti di ragazzi figli di migranti provenienti da paesi a maggioranza musulmana e residenti in Italia. Pertanto esso affronta il tema dell’islamofobia intesa come ogni forma di odio, pregiudizio, discriminazione, o stigmatizzazione dell’Islam e dei musulmani in quanto portatori di questa religione1. Secondo una delle prime ricerche sul tema, a partire dagli anni Settanta gli episodi di islamofobia in Gran Bretagna sono diventati sempre più frequenti ed estremi andando a impattare in modo concreto sulla vita quotidiana delle persone di origine musulmana. Ciò è avvenuto nelle seguenti forme, tutte interconnesse tra loro: esclusione sociale e politica, violenza fisica o verbale, pregiudizio nel linguaggio comune e dei media, discriminazione rispetto all’accesso ai servizi e al mondo del lavoro [Runnymede Trust 1997; Cfr. Massari 2006, 64-65; Giacalone 2020]. Esiste infatti un abbraccio viscerale tra l’islamofobia e le più vecchie forme di razzismo, e, nel caso specifico italiano, con il razzismo “storico” di stampo coloniale di inizio Novecento, e poi con quello contro gli immigrati meridionali del secondo dopoguerra – del quale la repulsione verso i musulmani ha rappresentato il sostituto anche nei discorsi della destra italiana [Perocco 2010].

A queste stratificazioni se ne aggiunge un’altra forse ancora più antica e storicamente fondata, quella riguardante la sfera religioso-civilizzatrice, alla quale verrà prestata particolare attenzione nel presente contributo. Rispetto a questo punto, la combinazione di nuove forme di razzismo e discorsi anti-islamici che hanno fatto seguito ai più recenti fenomeni migratori, ha portato alcune attente osservatrici del fenomeno a parlare di “razzizzazione dell’appartenenza religiosa” [Rivera 2002, 2003; Massari 2006; Giacalone 2020, 2021]. Seguendo la scia di questi lavori il caso qui presentato verrà letto in controluce attraverso lo spettro della letteratura antropologica sul razzismo culturale e la discussione di un’altra forma di razzismo che sembra particolarmente adatta a descrivere l’intreccio di nuovi razzismi con forme sedimentate di discriminazione verso le minoranze etnico-religiose in Europa: il razzismo spirituale [di Nola 1973]. Per essere compresa infatti l’islamofobia va collocata all’interno del rapporto di lungo corso che l’Islam ha intrattenuto con il continente europeo e la sua identità. Tale rapporto si fonda, per citare un altro studio pionieristico sul razzismo [Guillaumin 2002; cit. in Siebert 2006: IX, in Massari 2006], tanto su processi di “eterorazzizzazione” quanto di “autorazzizzazione”. Nel caso dell’islamofobia il primo meccanismo, ovvero la costruzione del musulmano come altro da sé e percepito come retrogrado e incivile, è stato attivato in modo parallelo e funzionale al secondo: la definizione dell’identità europea come essenzialmente “moderna” e “civilizzata” [Delanty 1995; Goody 2004].

Il presente articolo si focalizza sulle pratiche quotidiane di quello che verrà definito come micro-razzismo, per come esso viene esperito a scuola nelle interazioni con i docenti in primis, e i compagni di classe poi, a partire soprattutto dalla scuola secondaria inferiore. Fare ricorso al prefisso “micro” non significa sminuire il fenomeno, bensì, al contrario, cercare di ricostruirne la specificità, ovvero i modi sottile e quasi impercettibili con cui esso si innesta nella vita di tutti i giorni, a partire dalle interazioni più elementari e apparentemente innocue come, in uno degli esempi trattati più sotto, la semplice pronuncia di un nome. La letteratura antropologica sul razzismo in Italia ha illustrato a dovere come il fenomeno si radichi in una retorica di destra, dalla quale tuttavia anche le formazioni politiche più progressiste non sono rimaste immuni negli ultimi trent’anni; retorica che ha trovato la sua cassa di risonanza nei mass media e la sua attuazione in pratiche istituzionalizzate di razzismo all’interno delle amministrazioni pubbliche, del mondo del lavoro e della scuola [Bachis 2019; Rivera 2009, 2020]. In quanto principale organo demandato alla formazione dei cittadini secondo i valori “secolari” incarnati dalla Repubblica, la scuola ha rappresentato uno dei primi ambiti di manifestazione dell’islamofobia nella maggior parte dei paesi europei e in particolare la Francia [Bowen 2008; Fadil 2009, 2011; Fernando 2014; Giacalone 2020, 2021].

Discorso analogo può essere fatto per il caso italiano. Per i ragazzi e le ragazze oggetto di questo articolo è nelle pieghe delle interazioni quotidiane con insegnanti e coetanei che alcuni marcatori della differenza come il nome, l’utilizzo di un certo vestiario, o la presunta o reale deficienza linguistica diventano l’oggetto di forme di “micro-razzismo”. In particolare sono le ragazze che indossando il velo, un simbolo molto visibile e che incarna la maggior parte dei principi contro cui l’identità europea si è costruita storicamente, a essere colpite. Tali dinamiche si collocano ancora un volta in discorsi di lungo periodo sul presunto grado di maggiore civilizzazione dell’Occidente rispetto a un Islam percepito come retrogrado e opprimente della libertà femminile. Come verrà illustrato anche in riferimento a un’emergente letteratura sul femonazionalismo [Farris 2015], esiste infatti un intreccio profondo e sibillino tra l’islamofobia e discorsi di tipo progressista sulla donna.

Poiché la ricerca si focalizza su figli di migranti musulmani, essa si colloca all’interno dei dibattiti sulle cosiddette “seconde generazioni” in Italia e altrove. Alcuni studi pioneristici sull’argomento si sono interrogati sull’influenza che i legami transnazionali continuavano o meno a esercitare su persone che in larga parte non avevano mai abitato nel paese d’origine dei genitori [Levitt, Waters 2002]. Simili interrogativi sono stati posti da un ampio numero di studi in ambito italiano [Salih 2004; Riccio, Russo 2009; Notarangelo 2011; Cingolani, Ricucci 2014; Grimaldi 2022]. Tuttavia come è stato notato con sempre maggiore frequenza nella letteratura sull’Islam in Europa, i figli di migranti hanno riformulato le loro identità in modi nuovi e sempre più slegati dal contesto d’origine dei genitori [Khosrokhavar 2002; Salih 2004]. Pertanto diversi studiosi del fenomeno hanno suggerito che per comprendere i vissuti di queste persone sia preferibile adottare una lente di analisi che vada “oltre le migrazioni” [Bowen 2004; Massari 2006]. Questo aspetto diventa ancora più evidente per quelle che altrove ho definito come “nuove seconde generazioni” di musulmani in Italia, ovvero ragazze e ragazzi nati o cresciuti in Italia tra la fine degli anni Novanta e gli inizi degli anni Duemila [Vicini 2021a], i quali parlano italiano in modo fluente, hanno rapporti solo saltuari con la patria d’origine dei genitori, e spesso si sentano a tutti gli effetti italiani. Ciononostante, a partire dalla prima adolescenza essi sono sovente oggetto di processi di razzizzazione che hanno portato a un graduale ma consistente cambiamento della loro percezione di sé.

L’articolo si basa sui materiali di una ricerca condotta tra il 2020 e il 2021 con ragazzi residenti principalmente nelle province di Brescia e Verona. Anche a causa dell’emergenza COVID-19, i materiali sono stati prevalentemente raccolti tramite interviste in profondità condotte su Zoom, la frequentazione di profili Facebook e Instagram, e di vari gruppi di incontro online di giovani musulmani gestiti tramite WhatsApp, Zoom, e Telegram. Pur considerando questi limiti metodologici, l’aver condiviso coi miei interlocutori le mie precedenti ricerche sull’Islam e il fatto di aver vissuto in Turchia per diversi anni ha permesso di creare con loro una “risonanza emotiva” che li ha predisposti al racconto della loro narrazione di vita [Giacalone 2021, 21]. Infine è opportuno specificare che l’articolo riporta principalmente estratti di conversazioni avute coi miei interlocutori sulle relazioni da loro intrattenute con insegnanti e compagni di classe nei vari ordini di istruzione, sugli episodi di razzismo vissuti in quegli anni, e su come queste esperienze abbiano influenzato il processo di costruzione delle loro identità. Pertanto questo studio non consiste in una ricerca etnografica basata sull’osservazione diretta di esperienze di discriminazione a scuola, ma su ricordi e percezioni sedimentate di tali esperienze da parte dei miei interlocutori. Se da un lato il passare del tempo può aver smussato le sensazioni negative legate a certi ricordi, dall’altro ci restituiscono uno sguardo più distaccato e lucido su quelle esperienze che, rimaste impresse nelle memorie dei miei interlocutori, hanno segnato in modo indelebile il loro percorso identitario come figli di migranti musulmani cresciuti in Italia.

Vecchi e nuovi razzismi

Da tempo ormai si parla di neo-razzismo [Barker 1981; Balibar 1991] o di razzismo culturale [Modood 2015] per definire quelle almeno parzialmente nuove forme di stigmatizzazione che colpiscono le minoranze residenti nella maggior parte delle nazioni europee non sulla base di differenze genetiche o somatiche come era nel razzismo “classico” di epoca coloniale, bensì di carattere culturale. In questo tipo di razzismo le persone non vengono discriminate per la loro presunta inferiorità razziale, ma perché portatrici di una cultura vista come diversa e incompatibile coi principi e gli stili di vita occidentali. Già sul finire degli anni Ottanta Taguieff [1994] aveva utilizzato l’espressione differenzialismo culturale per circoscrivere queste forme di razzismo. Pur partendo da un riconoscimento formale del diritto di esistere degli altri popoli e delle loro rispettive culture, i nuovi discorsi razzisti riproducevano la vecchia opposizione fondamentale tra Occidente e resto del mondo. Nonostante ci sia generale accordo sulle trasformazioni del discorso razzista, c’è stato un ampio dibattito concettuale a proposito di come meglio definire tale mutamento. Laddove Taguieff [1994] distingueva il razzismo biologico da quello attuale parlando di due razzismi differenti, Wieviorka [2015] ha preferito parlare di due logiche entrambe presenti da sempre nel discorso razzista, seppur in combinazioni e misure differenti. Dal canto suo Stolcke [1995; 1996] ha invece sottolineato l’esistenza di una differenza concettuale fondamentale tra il razzismo di vecchio stampo e quello che lei preferisce chiamare fondamentalismo culturale. Laddove si possono tracciare linee di continuità tra i due fenomeni, a suo avviso “c’è poco da guadagnare nel ridurre ogni forma di discorso o pratica di esclusione al razzismo”; occorre invece cercare di comprendere le nuove forme di esclusione a partire dal loro contesto specifico [Stolcke 1996, 775]2. Mentre il razzismo di vecchio stampo agiva razzizzando quelle che erano le differenze di classe e status che già distinguevano il bianco colonizzatore dal resto del mondo, il fondamentalismo culturale di Stolcke assume senso solo all’interno dell’ordine politico moderno centrato sull’idea di stato-nazione, il quale stabilisce una opposizione naturale e ontologica, e quindi fondativa, tra il cittadino autoctono delle società occidentali e lo straniero.

Da questa breve ricostruzione si evince che una delle domande chiave del dibattito sul neo-razzismo è stata come distinguere quest’ultimo dal razzismo di tipo precedente [Balibar 1991; cfr. van Nieuwkerk 2004], una questione che tuttavia rimane per molti versi irrisolta. Infatti diversi autori hanno sottolineato come anche nel razzismo di tipo culturale permangano echi evidenti del razzismo biologico vecchio stampo. Le forme contemporanee di razzismo continuano a postulare l’esistenza di differenze culturali fondamentali che rendono gli immigrati impermeabili a una presunta norma “civilizzata” incarnata dagli ideali di cittadinanza europei [Modood 2015, 155-156; 2005]. Secondo Balibar [1991, 25] la distinzione civilizzato/non civilizzato è una “appena rielaborata variante dell’idea che le culture storiche dell’umanità possano essere divise in due gruppi principali, quelle che pretendono di essere universalistiche e progressive, e le altre che si suppone siano irrimediabilmente particolaristiche e primitive”. Come è stato osservato anche in alcuni studi sul razzismo in Italia [Bachis 2019], a un cambiamento terminologico interno al discorso razzista non ha corrisposto una trasformazione del fenomeno a livello sostanziale. Il razzismo di oggi non abbandona la retorica del sangue e della razza. Anzi, spesso fa ancora riferimento alle differenze somatiche come elementi che avvicinano o allontanano le minoranze dal gruppo dominante razzizzante [ivi, 21]. Questo fatto è alimentato dalla comparsa, a partire dagli anni Novanta, di una serie di movimenti e partiti populisti di destra che hanno sdoganato il rimando a elementi di razzismo biologico nei loro discorsi [Rivera 2020; Pontrandolfo, Rizzin 2021]. In tal senso “il vecchio si mescola al nuovo” [Taguieff 1999, 2].

Ma a prescindere da quali siano considerati essere i suoi valori costitutivi il razzismo continua a essere “una presenza assente” delle nostre società, che sebbene a volte sia difficile da cogliere si manifesta in modi nuovi e specifici [M’charek et. al. 2014; cfr. Hervik 2006; Balkenhol, Schramm 2019]. Una di queste nuove forme è l’islamofobia. In essa non è una distinzione basata sui tratti somatici o del sangue a predominare. Anche quando questi o altri segni visibili dell’identità musulmana come l’aspetto esteriore o il vestiario vengono evocati, è principalmente perché rimandano alla appartenenza dei musulmani a un ordine religioso-civilizzatore percepito come ontologicamente differente da quello occidentale, e specificatamente europeo.

Ritorno al futuro: il razzismo spirituale

Sempre di Balibar è la suggestione secondo cui prima dell’espansione coloniale europea il razzismo non fosse legato tanto a fattori somatici e biologici. Egli individua nell’antisemitismo moderno il prototipo del differenzialismo razzista di oggi tanto da arrivare ad asserire che esso possa essere considerato una forma di anti-semitismo generalizzato nel quale i tratti somatici continuano a giocare un ruolo ma “più come segni di una profonda psicologia […], di una eredità spirituale piuttosto che di una eredità biologica” [Balibar 1991, 24]. Questi tratti vengono a rappresentare il segno esteriore di una inclinazione interiore (e quindi più “reale”) delle profonde disposizioni comportamentali dei gruppi etnico-culturali altri. In modo interessante, sempre in questo contributo, Balibar mette in connessione queste più antiche forme di razzismo con quello che già trent’anni fa chiamava arabo-fobia: una forma a quel tempo già diffusa di neo-razzismo radicata nella visione dell’Islam come di un sistema culturale incompatibile con i modi di vita e le visioni del mondo europee. Tuttavia, sebbene stimolanti, queste riflessioni sono per Balibar più funzionali a individuare similitudini col razzismo differenzialista di Taguieff che a tracciare la specificità delle forme di razzismo che prendono di mira le minoranze religiose.

Nell’ottica di tracciare paralleli tra le forme di razzismo più recenti e altre che nella storia hanno interessato in particolare la dimensione religioso-civilizzatrice, è allora utile guardare alla categoria di “razzismo spirituale” discussa da Alfonso di Nola all’inizio degli anni Settanta. In un vecchio volume fino a poco tempo fa non molto conosciuto intitolato Antisemitismo in Italia 1962/1972 , l’antropologo e storico delle religioni si soffermava sull’importanza di questa diversa tipologia di razzismo, identificandola con una forma di intolleranza verso i presunti tratti intrinseci, psicologici e spirituali di un gruppo definito di persone, in questo caso gli ebrei [di Nola 1973]. In questi passi, di Nola tratteggia il carattere peculiare di questo modo di marcare la differenza, anche anticipando molti degli argomenti sul razzismo culturale di Taguieff e altri [Piasere 2021, 40-42]. Nel razzismo spirituale non sono le presunte differenze di tipo biologico e/o etnico-culturale a prevalere, bensì quelle circa i valori costitutivi e non-rinnegabili della persona. Si tratta di una differenza di “spirito”, che traccia un confine ontologico e quindi insormontabile con le persone appartenenti ad altri gruppi etnico-religiosi.3 Laddove nel neorazzismo l’enfasi cade sull’inadeguatezza dell’altro a innalzarsi ai modi di vivere e di pensare occidentali, nel razzismo spirituale essa è posta sul radicamento delle minoranze in una tradizione religioso-civilizzatrice vista come ontologicamente altra rispetto a quella europea, e proprio per questo in competizione con essa.4

Subentra qui un elemento che sembra avere una genealogia specifica alla storia europea poiché riconducibile al rapporto di lungo corso tra identità europea e Cristianesimo, da un lato, e le altre due religioni monoteistiche, dall’altro. Come è stato accennato più sopra, l’islamofobia non può essere compresa senza collocarla in una profondità storica all’interno della quale si interseca con i lunghi processi di formazione dell’identità europea, e lo stesso vale per l’antisemitismo. Storicamente autopercepitasi come essenzialmente cristiana, l’Europa ha da sempre intrattenuto un rapporto problematico con le altre due fedi monoteiste. Alla luce delle origini abramitiche comuni, le minoranze ebraiche e musulmane sono state infatti viste come presenze subdole, poco addomesticabili, e quindi potenzialmente più pericolose di ogni altra forma di alterità: una presenza inquietante e una minaccia sempre viva, in grado di “contaminare e pervertire il corpo sociale più ampio [Massari 2006, 121] e quindi di mettere a rischio l’ordine costituito. È questa paura di commistione con persone che appartengono a una tradizione religioso-civilizzatrice percepita come altra, ma potenzialmente dirompente proprio per la sua vicinanza a quella cristiana, che sembra caratterizzare le forme contemporanee di razzismo a sfondo religioso. Questo discorso vale almeno per il caso europeo, che si distingue per una lunga storia di interazione con i musulmani oltre che con gli ebrei [Goody 2004]. È in tale contesto storicamente marcato da una difficile convivenza con i fedeli degli altri due monoteismi non cristiani, che la categoria di “razzismo spirituale” sembra acquisire la sua significatività più specifica.5

Messe in luce le radici di lungo corso del discorso differenzialista a tinture religiose, è tuttavia nel contesto a noi più prossimo, e in particolare nel panorama identitario che si è definito dopo gli attentati alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, che il razzismo contro i musulmani compie un salto qualitativo oltre che quantitativo.   Laddove a partire dal secondo dopoguerra in Europa, e con un certo ritardo in Italia a partire dagli anni Ottana, i migranti musulmani erano stati oggetto di attacchi di origine xenofoba, era stato il fattore etnico, ovvero la comune provenienza araba della maggior parte dei musulmani europei, a essere preso di mira. Dopo questi avvenimenti invece gli attacchi razzisti vengono ricalibrati attorno alla macro-categoria “Islam” intesa come una visione del mondo univoca, a sfondo marcatamente religioso, tradizionalista, irrazionale e, se associata a forme di radicalismo, anche violenta. È negli ultimi vent’anni quindi che il discorso stigmatizzante contro i musulmani acquisisce nuovamente una coloritura marcatamente religiosa, dove la religione viene ridefinita nei termini di “marchio negativo”, di “stigma” [Rivera 2003]. Non a caso il termine islamofobia, che era stato utilizzato in modo sempre più consistente a partire dalla fine degli anni Novanta in Europa [Allen 2010; Bangstad 2022], si afferma con forza dopo il 2001 [Geisser 2003; Massari 2006] per definire la recrudescenza degli attacchi contro i musulmani.

Se da un lato è vero che tali attacchi fossero e oggi siano ancora rivolti più agli elementi di immediata identificazione visiva dei musulmani che verso la loro religione in senso stretto [Massari 2006, 70-72], tuttavia i due aspetti sembrano difficilmente separabili. È infatti l’elemento religioso-civilizzatore al quale questi simboli rimandano che definisce l’inammissibilità presunta di questi gruppi al “modo di vita occidentale”. I miei interlocutori venivano presi di mira non tanto per il colore della loro pelle, quanto per il legame profondo che veniva stabilito tra i loro atteggiamenti e abbigliamenti e la loro appartenenza a una precisa tradizione religioso-civilizzatrice, quella islamica, e la loro presunta inadeguatezza a vivere nel contesto italiano. Essi hanno vissuto episodi che oscillano tra forme di razzismo differenzialista e manifestazioni di aperta islamofobia che, seppur meno crude di quelle esperite da giovani musulmani di altri paesi europei, sono diventati marcatori della differenza che hanno segnato i loro vissuti e lacerato il loro senso di appartenenza alla società italiana.

Marcare la differenza

Poiché gli episodi di islamofobia avvengono negli interstizi delle interazioni quotidiane e difficilmente vengono riportati da chi li subisce, sono difficili da monitorare quando non appaiono sui media. A questo problema si aggiunge quello statistico, relativo alla mancanza di una raccolta sistematica e completa dei dati in forma disaggregata per etnia o religione da parte degli enti e delle organizzazioni predisposte al monitoraggio. Tuttavia i dossier disponibili sull’islamofobia in Italia ed Europa rilevano come i musulmani siano sottoposti a discriminazioni soprattutto quando alla ricerca di lavoro, di un’abitazione, e a scuola, dove spesso vengono ignorate le restrizioni alimentari di ordine religioso, i libri di testo non contemplano la differenza religiosa, e gli insegnanti mantengono degli atteggiamenti discriminatori [EUMC 2006; ENAR 2016; IDOS 2016; SETA 2020]. In particolare la discriminazione in ambito lavorativo colpisce le donne che indossano il velo [ENAR 2016]. Infatti dopo l’11 settembre 2001 elementi di identificazione visiva dei musulmani come l’ hijab , il turbante, l’abito tradizionale ( jellaba ) e la barba hanno assunto una rilevanza crescente nell’identificare i possibili obiettivi di violenza – fisica, verbale, o psichica – razzista e xenofoba di stampo antimusulmano [Massari 2006, 79].

Questi marcatori identitari tuttavia non sono diventati evidenti per i miei interlocutori6 fino alla pubertà, sia per una mancata piena consapevolezza del loro rilievo, sia perché i loro corpi non erano ancora segnati da essi. I ragazzi e le ragazze da me intervistati mi hanno raccontato storie diverse circa il rapporto che hanno intrattenuto coi loro coetanei a partire dalla prima infanzia e come tale rapporto sia evoluto nel tempo durante il loro percorso di maturazione. Al di là delle diverse storie personali, tutti, anche quelli che si sono omologati maggiormente al contesto italiano, mi hanno raccontato di momenti particolarmente significativi della loro vita, avvenuti da adolescenti, durante i quali a seguito di battute o osservazioni apparentemente innocue e di poco conto da parte di insegnanti e coetanei, si sono resi conto di essere percepiti come “diversi”.7 Seppur apparentemente minori (quantomeno per chi non è oggetto di discriminazione) questi momenti sono diventati per loro segnanti, poiché hanno alterato in modo definitivo la loro percezione di sé e del mondo intorno a loro. Per questo li possiamo chiamare momenti di demarcazione della differenza.

A tal proposito, in un suo studio sui processi di razzizzazione di ragazze afro-americane di classe media cresciute in alcuni sobborghi residenziali in California, Twine ha parlato di “eventi confine” ( buondary events ) per definire quei momenti nei quali le sue interlocutrici, in coincidenza col loro passaggio alla pubertà, hanno percepito per la prima volta la spaccatura tra una percezione precedente non-razzizzata di sé e la loro presa di coscienza di essere viste come diverse [Twine 1996, 211-217; cfr. Rajiva 2006; Granata 2011]. Sebbene anche per le ragioni suddette il contesto americano che fa da sfondo a questo studio sia diverso da quello europeo, il concetto di “eventi confine” di Twine è utile a definire quei momenti di demarcazione della differenza che si verificano anche nella vita di musulmani figli di migranti in Italia. La pubertà rappresenta un momento di passaggio nella costruzione del sé razzizzato, poiché è in questo periodo della loro vita che i figli e le figlie di migranti percepiscono per la prima volta in modo distinto di essere visti come diversi dai loro coetanei. Questa osservazione vale in generale ma ancora di più per ragazze musulmane nel momento in cui è sempre in questo periodo della loro vita che secondo l’interpretazione più corrente della tradizione islamica esse devono cominciare a indossare il velo. Tuttavia mentre nello studio di Twine [1996] sono i tratti somatici a essere al centro del processo di razzizzazione, in quello qui studiato, come già notato, sono quelli religioso-civilizzatori ad avere un ruolo chiave. Questo si spiega solo in parte col fatto che nei miei interlocutori, per la maggior parte ragazzi e ragazze di origine maghrebina, non sempre era evidente una differenza somatica rispetto ai coetanei italiani o ad altre persone di origine straniera provenienti da luoghi percepiti come culturalmente più vicini come il Sudamerica.8 A prevalere sulle differenze somatiche era la loro appartenenza a una tradizione culturale-civilizzatrice altra, percepita come ostile e potenzialmente pericolosa, che veniva segnata da marcatori quali il nome, le abitudini alimentari e, in particolare, il vestiario.

Questi momenti marcanti hanno fatto sorgere interrogativi e domande nei miei interlocutori che li hanno portati a elaborare dei percorsi identitari e di vita alternativi. Ciò non significa che abbiano sempre assunto identità di tipo oppositivo rispetto al contesto italiano. In molti casi i figli di migranti musulmani optano per modelli di vita che seppur caratterizzati da un senso del sé, pratiche alimentari e abitudini rituali legate al paese d’origine dei genitori, si omologano agli stili di vita e abitudini italiani. In altri casi, invece, intraprendono percorsi identitari differenti, che pur rimanendo legati a un senso condiviso di italianità, si smarcano dagli stili di vita italiani e abbracciano forme di identità “multiple”, sia musulmane che italiane, che trascendono le rispettive appartenenze nazionali di provenienza [Giacalone 2020, 2021; Vicini 2021b]. A prescindere da quale sia il caso, tutti si sono prima o poi misurati con questi momenti di demarcazione della differenza.

Tra islamofobia e micro-razzismo

A conferma di quanto detto circa il carattere apparentemente impercettibile dei momenti di demarcazione della differenza, una delle cose che mi ha sorpreso maggiormente sin dal principio della ricerca è che quando chiedevo ai miei interlocutori se fossero stati vittime di episodi di razzismo, la maggior parte di essi esordivano negando o sminuendo. Anche quando invitati a ripercorrere a ritroso le loro memorie, facevano fatica a ricordare episodi della loro vita che associavano apertamente al razzismo. Rimanevano perlopiù in silenzio, e poi affermavano, anche un po’ sbrigativamente, di non ricordare episodi “particolari”. Stava allora a me chiedere di sforzarsi di ricordare momenti in cui erano stati vittima di discriminazioni. Solo dopo questo mio invito affioravano alcuni ricordi, generalmente legati a episodi che – subito precisavano – non si potevano definire di “razzismo esplicito”. La maggior parte dei miei interlocutori condivideva l’opinione di non essere mai stata vittima di attacchi diretti di islamofobia. Certamente alle ragazze velate è capitato più volte di sentirsi oggetto di sguardi inquieti, smorfie di disapprovazione, o battutine in diversi luoghi pubblici: sull’autobus, in sala d’attesa dal medico, o per strada. Tuttavia anche esse tendevano a derubricare questi episodi come minori. Se da un lato si può riflettere sul fatto che questa tendenza possa dipendere dal desiderio di queste ragazze e ragazzi di sentirsi integrati, dall’altro solleva la questione della specificità del “micro-razzismo” come una forma di discriminazione quotidiana che dai racconti dei miei interlocutori risulta più diffusa nel contesto italiano rispetto ad altri come quello francese.

Nei loro discorsi la Francia emergeva spesso come il metro di paragone. Il paese è tenuto sotto osservazione dai social e dalle testate giornalistiche legate alla comunità islamica italiana, tra le quali spicca il quotidiano online “La Luce”.9 Molti dei miei interlocutori, soprattutto quelli originari delle ex colonie francesi Tunisia e Marocco, hanno parenti o amici che vivono in Francia, dai quali ricevono notizie di prima mano circa gli attacchi islamofobici subiti soprattutto dalle donne velate nel paese. Un’ampia letteratura antropologica ha esplorato il forte laicismo di stato francese, ispirato ai valori illuministi e repubblicani, mettendolo in relazione al divieto di indossare simboli considerati religiosi, e quindi ledenti la natura secolare della Repubblica, negli spazi pubblici [Asad 2006; Bowen 2008; Fadil 2009, 2011; Fernando 2014]. Come è stato recentemente notato, esiste in Francia un “continuo intreccio tra formazioni secolari e razziali” [Scheer, Schepelern, Fadil 2019, 7]. Noti esempi sono le controversie sull’utilizzo del velo a scuola scoppiate negli anni Novanta, che hanno portato all’approvazione della legge Stasi del 2004, la quale ancora oggi di fatto impone il divieto di portare lo hijab  in classe – legge che è stata ampiamente criticata anche da intellettuali francesi di area femminista [Delphy 2006]. Più recenti sono le misure prese da alcune municipalità costiere francesi tra cui Cannes e Nizza nel 2016 contro l’utilizzo del burkini, un tipo di costume congruo alle regole religiose islamiche, sulle loro spiagge.10 Da ultimo sono state invece denunciate le forme sistematiche di sorveglianza, indagini, e pressione esercitate su associazioni e istituzioni musulmane dietro incoraggiamento da parte di Macron sin dalla sua prima elezione nel 2017.11

I miei interlocutori pertanto ribadivano l’esistenza di una differenza tra l’Italia e la Francia. Ovviamente non si intende qui indulgere nel noto luogo comune degli “italiani brava gente” che rimane uno dei più persistenti nonostante le varie prove storiografiche circa la ferocia della seppur breve impresa coloniale italiana e il persistere di forme di razzismo popolare e istituzionale profondamente radicate nella nostra cultura civile e politica [Rivera 2009, 15]. Tuttavia dai discorsi dei miei interlocutori emerge come in Italia i musulmani non siano sottoposti alle stesse restrizioni dei loro connazionali francesi – a partire dalla libertà che le mie interlocutrici hanno avuto di indossare il velo a scuola. Come ha sostenuto Bakka durante il nostro primo incontro al Consiglio Islamico di Verona, «il problema del razzismo e dell’islamofobia qui [in Italia] non ha mai raggiunto la dimensione che ha in Francia […]. In Italia non si sono creati i ghetti che si sono creati in Francia. Qui c’è maggiore mescolanza [tra le persone nei quartieri]. In Italia si può parlare di incidenti razzisti, ma non a quei livelli».

Nella maggior parte dei casi i miei interlocutori sono stati vittime di quelli che ho chiamato episodi di micro-razzismo. Come chiarito in apertura, con questa espressione non si intende sminuire la portata di questi fenomeni, soprattutto se si considera l’impatto che hanno avuto sui percorsi identitari di queste persone. Al contrario essa serve a rimarcarne la specificità, ovvero il carattere sottile e a tratti impercettibile con cui si manifestano per mezzo di battute, non detti, e sottintesi che rivelano l’esistenza di pregiudizi e visioni razziste profonde verso “il musulmano”, “l’arabo” e “l’Islam”. La presenza a scuola, e nel nostro paese in genere, di persone italiane dotate di un background  culturale e religioso diverso suscita inquietudine poiché stride con la visione comune di italianità diffusa nel paese, la quale non contempla il riconoscimento di altri “noi” [Vicini 2021a]. È in questo contesto che le forme di micro-razzismo fungono da dispositivi che marcano la differenza dei figli di migranti rispetto ai loro coetanei “autoctoni”. Come vedremo, sono in particolare gli insegnanti i primi ad aprire le porte ai processi per cui i ragazzi vengono progressivamente smarcati dalla percezione di essere “come gli altri”.

Micro-razzismo dall’infanzia all’adolescenza

La maggior parte dei miei interlocutori è cresciuta in piccole realtà della provincia di Brescia o del Veneto all’inizio degli anni Duemila e, avendo pochi o nessun compagno di origine straniera, ha passato la propria infanzia con bambini di origine italiana. Prendiamo il caso di Ahmed, un ragazzo di 26 anni figlio di migranti marocchini cresciuto nella provincia di Rovigo. Durante la nostra conversazione mi ha rivelato che nella piccola realtà dove abitava quando frequentava la scuola primaria era stato spesso etichettato come straniero. Tuttavia mi ha spiegato che o si era trattato di episodi ascrivibili come minori oppure di forme di discriminazione che potremmo definire positiva. Ad esempio Ahmed ha ricordato come un compagno di classe un giorno si fosse rivolto a lui dicendogli «stai zitto marocchino!» Tuttavia questi aveva poi continuato a giocare con lui per anni.12 Semplicemente, ha commentato, «quando un bambino si arrabbia dice cose che sente dai genitori». A parte alcuni episodi isolati come questo, Ahmed mi ha detto di non essersi mai sentito fuori luogo a quell’età. Anzi, poiché a scuola era «bravino», ha aggiunto, era «il cocco delle maestre», le quali lo lusingavano con una frase ricorrente, che lo faceva stare bene: «Parli italiano meglio dei tuoi compagni [italiani]». Sebbene Ahmed abbia convenuto che esprimersi in questo modo non fosse forse il metodo pedagogico migliore, ha affermato: «quella diversità forse mi faceva sentire bene perché non mi denigrava, ma mi diceva che in qualche modo la mia diversità era migliore rispetto allo standard degli altri».

Per Ahmed come per molti dei miei interlocutori le cose sono cambiate con l’inizio della scuola secondaria di primo grado. Ahmed ha chiarito che questo passaggio è coinciso col trasferimento della famiglia nella città di Rovigo. Qui, mi ha spiegato, avvenne un cambio completo di scenario: «Era come se fossi stato per la prima volta in Italia». Percepiva atteggiamenti continui da parte dei compagni che trasmettevano l’idea che lui fosse diverso e questo gli fece vivere molto male quel periodo, tanto che cominciò ad andare male a scuola. Oggi Ahmed ammette che al tempo si era chiuso eccessivamente in sé stesso. Tuttavia ascrive buona parte della responsabilità ad alcuni insegnanti. Mi ha portato l’esempio di come la professoressa di Matematica, non essendo in grado di pronunciare il suo cognome, lo storpiasse continuamente. La conseguenza fu che i suoi compagni di classe cominciarono a storpiarlo a loro volta di proposito per deriderlo. «Avevo cominciato a odiare il mio cognome», ha affermato Ahmed. La situazione a scuola lo fece precipitare in un profondo sconforto che lo accompagnò per tutta la scuola secondaria inferiore. Si sarebbe poi riscattato durante la secondaria superiore, quando fece uno sforzo per far capire che, come mi ha detto con un pizzico di ironia, anche lui «parlava italiano e mangiava la pasta» e che quindi non si sarebbe più fatto mettere i piedi in testa da nessuno.  

Anche Salman, un ragazzo di 23 anni di origini pachistane cresciuto nella provincia di Brescia, non ricorda di aver vissuto esperienze particolarmente negative durante la scuola primaria. A quel tempo voleva avere amici italiani autoctoni. Come ha affermato: «Io volevo essere più compreso da loro che da altri».13 Forse, ha continuato, ciò era motivato proprio dal fatto di sentirsi diverso. A quell’età era anche più facile, ha aggiunto. In occasione di feste di compleanno dei compagni frequentava anche l’oratorio. Le cose cambiarono col passaggio alla scuola secondaria inferiore. Salman mi ha raccontato dei viaggi in pullman per andare a scuola, durante i quali i coetanei reiteravano attacchi verbali alla sua fede, inventando ogni giorno nuove bestemmie sul velo, Allah, o il profeta Maometto. Tuttavia ha subito osservato con maturità che i perpetuatori di questi attacchi erano ragazzi di terza media, ovvero appartenenti a una fascia d’età nella quale si tende a essere più «assoluti» e «ribelli». Forse anche per questa ragione ha preferito definire questi episodi come bullismo piuttosto che come espressioni di razzismo o islamofobia, anche se alla fine con amarezza ha aggiunto: «anche se solo verbale… forse a volte è peggio…».

Mentre raccontava questi episodi gli è venuta in mente la sua insegnante di Italiano, la quale con i suoi comportamenti sembra averlo segnato particolarmente. Anche in questo caso Salman preferisce non parlare di razzismo esplicito, bensì di «comportamenti strani»: un atteggiamento di tipo inquisitorio rivolto a lui e agli altri tre ragazzi stranieri presenti in classe a quel tempo. Gli episodi che ha ricordato riguardano i pochi accenni alla storia islamica che vengono fatti a livello scolastico: «Già i libri di storia più che spiegare rischiano di creare pregiudizi [su questo argomento]… E lei continuava a farmi domande, come se fossi un sapiente che doveva sapere tutto. Ma a quell’età non ne sai ancora tanto… Devi ancora farti un’idea di molte cose». Inoltre a Salman era chiaro che queste domande non erano mosse da una curiosità genuina: «Era più un interrogatorio ‘maligno’, diciamo». La docente poneva domande scontrose, di tipo binario come: «‘Noi mangiamo il maiale. Perché voi non potete?’ E lo stesso valeva per il vino, e per l’alcool…». Salman ha chiarito che l’insegnante era molto pesante in questo suo atteggiamento e si vedeva che cercava lo scontro. Soprattutto, ha aggiunto infine: «Purtroppo il suo comportamento ha un po’ influito su alcuni ragazzi della mia classe». Come mi ha spiegato, infatti, l’insegnante non ha fatto che rimarcare la sua alterità rispetto ai compagni, i quali da allora hanno cominciato a vederlo come diverso e di conseguenza a cambiare atteggiamento nei suoi confronti.

Anche Salman quindi, come Ahmed, ha attribuito un ruolo importante ai docenti nell’indirizzare i processi di costruzione del sé in un’età critica come quella dell’adolescenza quando, ha detto: «i ragazzi cominciano a formare un proprio io». Da quanto raccontano da entrambi, gli insegnanti invece che favorire col dialogo e la discussione il superamento di alcuni modi di pensare dicotomici circa la differenza culturale, li riproducevano. Lo facevano attuando forme di razzismo che più sopra abbiamo definito di tipo spirituale: a essere presi di mira non erano tanto i tratti fisici e biologici degli studenti ma il loro background  religioso-civilizzatore. Il ruolo degli insegnanti nel veicolare forme di razzismo di questo tipo emerge in modo ancora più evidente quando rivolto alle ragazze, perché esso è in questo caso sostenuto dal fenomeno del femonazionalismo: l’utilizzo di una presunta idea universale di donna, condivisa in Occidente sia da destra che da sinistra, al fine di criticare i modelli di femminilità musulmani.

Femonazionalismo istituzionalizzato?

La donna ha da sempre rappresentato il centro simbolico dello scontro tra la visione del mondo occidentale e quella orientale. Già Frantz Fanon [2003] mostrava le tensioni generate in Algeria dalle prese di posizione dei colonialisti francesi che vedevano nel velo un simbolo di arretratezza culturale. L’idea che la donna musulmana debba essere salvata è infatti un tropo di lungo corso della retorica politica occidentale [Abu-Lughod 2002]. Nei discorsi di politici, dei media e di tutti i giorni si punta spesso il dito all’ hijab  per presentare un’idea reificata dei musulmani quali portatori di una civiltà retrograda che opprime la donna, al contrario del mondo occidentale visto come la patria delle libertà e dell’uguaglianza tra i sessi. Analizzando criticamente questo discorso, diverse autrici hanno osservato come il velo sia diventato uno dei principali veicoli del processo di razzizzazione della religiosità musulmana [Rivera 2002, 2003, 2005; Delphy 2006]. È sulla base di questi preconcetti infatti che molti politici occidentali attaccano i musulmani e l’Islam in forme che Farris [2015; 2017] ha denotato col termine femonazionalismo: lo «sfruttamento di temi femministi da parte di politici nazionalisti e neoliberali per le loro campagne anti-islamiche» – campagne che vedono spesso la partecipazione di femministe e «femocratiche» che mirano a stigmatizzare l’uomo musulmano sotto l’egida dell’uguaglianza di genere [Farris 2017, 4].14 Ma mentre Ferraris parla di femonazionalismo in relazione al discorso politico pubblico, qui dirigo l’attenzione sulle forme di razzismo a sfondo femonazionalista nelle interazioni quotidiane in ambiente scolastico.

Come è stato rilevato da autrici che hanno affrontato la questione del velo da una prospettiva di femminismo islamico [Pepicelli 2010], la riduzione di questo indumento alla dicotomia libertà/oppressione ha comportato una privazione della possibilità per le stesse donne musulmane di articolare un proprio discorso sul suo uso [Ahmed 1995; Mernissi 1996]. Negli ultimi trent’anni queste e altre studiose hanno dimostrato che grazie a una più profonda conoscenza della tradizione e a una acquisita maggiore vocalità nello spazio pubblico, le donne musulmane sono state capaci di articolare modelli di femminilità musulmana che superano questa dicotomia e, con essa, anche le modalità di pensiero femminista di stampo occidentale che hanno teso a riprodurla. La decostruzione della retorica occidentale sul velo permette di rivelare l’ambivalenza, le complessità e la molteplicità delle traiettorie di vita e pensiero femminili. Come dimostrano le storie che seguono, così come quella di alcune figlie di migranti cresciute in Italia [Abdel Qader 2008], la scelta di indossare il velo emerge da un sentimento complesso, talvolta elaborato anche in opposizione ai desideri dei genitori, mirato alla coltivazione di una propria spiritualità in un contesto come quello italiano che non rende certamente agevole farlo [Giacalone 2020; Vicini 2021b].

Emine è una ragazza di origini tunisine di 25 anni residente in provincia di Verona, estroversa ed energica, che durante il nostro colloquio si è presentata come una donna dal carattere forte. Le scelte da lei compiute fin da ragazzina sembrano confermarlo. Laddove la maggior parte delle sue coetanee da me intervistate ha iniziato a portare il velo l’estate del passaggio alla scuola secondaria superiore, Emine decise di farlo già verso la fine della scuola primaria. Ciò, mi ha spiegato, era avvenuto nonostante fosse la prima e unica in assoluto nel piccolo paese nel quale era cresciuta e che questa scelta le fosse costata la perdita dell’amicizia di alcune compagne di classe.15 Ma Emine era decisa a portare avanti le sue idee. La situazione degenerò durante il primo anno di liceo, quando – mi ha raccontato – fu vittima di diversi attacchi da parte degli insegnanti, soprattutto della professoressa di Italiano.16 Nonostante lei fosse brava in Italiano e si sforzasse di scrivere correttamente prestando attenzione alla grammatica, la professoressa le trovava sempre degli errori, discriminandola. Emine ricorda vividamente come durante il primo colloquio coi genitori, la docente avesse detto apertamente che poiché lei non era italiana – Emina è nata in Italia ma ha dovuto aspettare il compimento dei 18 anni per richiedere la cittadinanza – non sarebbe mai stata brava e non avrebbe mai parlato come un’italiana!

Quando ho domandato a Emine se a suo avviso questo genere di comportamenti potevano essere definiti come islamofobici, mi ha risposto che più che altro si sentiva discriminata e ignorata. Nel fornirmi altri esempi mi ha raccontato che quando alzava la mano in classe non le davano quasi mai la parola e se chiedeva chiarimenti gli insegnanti si limitavano spesso a ripetere quanto già detto senza dare spiegazioni più accurate. Emine mi ha spiegato che poi i compagni hanno iniziato a comportarsi di conseguenza, prendendola di mira con riferimento all’Islam: «Succedeva quando si parlava di alcune tematiche sensibili come la questione dei diritti degli uomini e delle donne. Allora uscivano [i compagni] con frasi del tipo ‘voi islamici’, ‘voi sottomessi’, ‘voi siete senza diritti’». A titolo di commento finale Emine ha aggiunto che tutti questi e altri episodi discriminatori che ha vissuto secondo lei sono legati al fatto che indossasse il velo.

Un altro caso è quello di Nour, una ragazza di 22 anni di origini marocchine residente in provincia di Brescia. Nour si è presentata al nostro colloquio con indosso uno hijab  rossiccio le cui estremità si posavano sulla tunica color panna. Rispetto a Emine, Nour ha deciso di portare il velo solo nell’estate tra la prima e la seconda classe della scuola secondaria superiore, quando ha cominciato a coltivare la sua spiritualità. Nonostante la sua decisione avesse suscitato un certo shock  iniziale nei compagni, questi si erano lentamente abituati e avevano optato per un approccio non divisivo. Come mi ha spiegato: «Se la scelta era fra andare a ballare oppure mangiare o bere qualcosa di tranquillo assieme fuori» optavano per la seconda.17 Ciononostante Nour ha avuto problemi con la professoressa di Scienze Umane, che a suo avviso era molto prevenuta sull’Islam.18 Lo ha detto giustificandola in parte per il fatto di essere una docente anziana che sarebbe andata in pensione da lì a pochi anni. Quando le ho chiesto di aggiungere alcuni particolari, Nour mi ha risposto in modo un po’ vago dicendo: «Era molto fissata sulla figura della donna come schiacciata, umiliata… all’interno della mia religione. E faceva spesso esempi di questo tipo quando si parlava di antropologia o di sociologia». Nour aggiunge che spesso interveniva per cercare di farle cambiare idea, ma che era difficile scalfire certi schemi di pensiero.

Diverso è il caso di Ines, un’altra ragazza di origini marocchine cresciuta in provincia di Verona. Ines ha cominciato a portare il velo ancora più tardi, a partire dal quarto anno della scuola secondaria superiore. La decisione era stata il risultato di un suo percorso di scoperta della fede a seguito di una crisi spirituale. L’aspetto forse più interessante della sua vicenda è che fino a quel momento Ines aveva preferito omologarsi al pensiero dei suoi compagni di classe, assecondandoli quando facevano commenti razzisti su altre persone, in particolare un compagno di classe cinese, e «i marocchini» in generale.19 Come le altre ragazze da me intervistate, Ines seguiva le principali regole religiose, per cui non mangiava maiale, non beveva, non andava in discoteca, né usciva da sola con dei ragazzi. Tuttavia quando i suoi compagni di classe ostentavano il loro ateismo e le chiedevano se credesse o meno, preferiva evadere la domanda oppure omologarsi a quella che era la vulgata comune rispondendo: «Ma no… Chi ci crede ormai a quelle cose...». Ciononostante Ines ha affermato che, paradossalmente, aveva guadagnato maggior rispetto dai suoi compagni da quando, successivamente, aveva iniziato a portare il velo. Lo stesso però non era avvenuto con i docenti. In particolare Ines ricorda la professoressa di Inglese. Mi ha raccontato che già da prima della sua decisione di coprirsi il capo la docente le faceva spesso commenti di apprezzamento sui suoi folti capelli ricci e le ripeteva che sarebbe stato un peccato se avesse deciso di indossare il velo un giorno, aggiungendo: «Guai a te se lo metti!» Ines andava bene in Inglese, materia in cui manteneva la media dell’otto. Ma quando in quarta apparve velata in classe, la professoressa per circa un mese ogni volta che la vedeva le ripeteva: «Non dovevi farlo». Da quel momento in poi la media di Ines nella materia scese al sei. Nonostante la ragazza fosse convinta che ciò fosse dipeso da un’evidente ingiustizia, decise di accettare questo voto senza lamentarsi fino al conseguimento della maturità. Lo fece evidentemente per la posizione di subordinazione in cui si trovava rispetto all’insegnante, nella convinzione che se anche si fosse lamentata probabilmente sarebbe stata accusata di esagerare e comunque non sarebbe cambiato nulla.

Da ultimo vediamo il caso di Zahira. Nata in Marocco nel 2000, Zahira è migrata in Italia con la madre a 3 anni a seguito di una procedura di ricongiungimento familiare. Da allora risiede in un paesino della bassa bresciana. Tuttavia i primi anni a casa si parlava solo arabo e questo le ha comportato delle difficoltà durante la scuola primaria. Per anni ha continuato a sbagliare la scrittura di alcune parole e, nel tentativo di correggerla, le maestre le hanno sottoposto dettati fino alla classe quinta. Mentre alcune insegnanti erano brave e pazienti, altre tenevano degli atteggiamenti marginalizzanti. Ad esempio dicevano ad alcuni compagni: «Questa non sa l’italiano, aiutala tu»; oppure: «Prendi il suo quaderno, scrivile tu [questo o quello]».20 Secondo Zahira questi atteggiamenti marcavano una differenza che era già resa evidente dal suo nome e dalla sua carnagione scura; atteggiamenti che finirono per alimentare un circolo vizioso che sfociò in episodi di bullismo nei suoi confronti. I compagni la prendevano in giro e le facevano spesso scherzi, come ad esempio svuotarle l’astuccio.

Nonostante il suo italiano fosse col tempo migliorato, i suoi problemi sono continuati anche negli anni successivi. Durante le scuole superiori era in una classe composta quasi interamente da ragazze, di cui altre cinque straniere, anche se lei era l’unica a indossare il velo. A quel tempo aveva ormai vinto alcune timidezze del passato, andava bene a scuola e interagiva con le compagne. Tuttavia per Zahira il problema maggiore rimaneva il rapporto con alcuni docenti. La tensione cresceva soprattutto quando si verificavano atti di terrorismo in Europea: «Sentivi che in classe qualcosa non andava… perché… c’era quella paura». Zahira mi ha detto di non ricordare episodi significativi ma che percepiva il fatto che «tu rimani quel diverso che puoi in qualche modo farci del male». Ha inoltre aggiunto che se c’era razzismo, i professori non lo facevano vedere direttamente. Era più un atteggiamento che traspariva dai comportamenti, soprattutto quando bisognava darle un voto. Mentre altre compagne di origini italiane che forse non meritavano di raggiungere neppure la sufficienza venivano aiutate, ha concluso Zahira: «…con me c’era sempre questa idea del: ‘eh, con te non funziona come con le altre’».

Conclusioni

Si sente spesso dire che l’Islam sia barbaro e incivile. Si gioca coscienziosamente con la diversa datazione del calendario islamico per dire che i musulmani sono ancora nel Medioevo e devono quindi farne di strada per raggiungere gli standard di civiltà europei. È infatti innegabile che sebbene nelle nuove forme di razzismo la disposizione dei popoli lungo griglie gerarchiche sia edulcorata dal riferimento a un linguaggio di uguaglianza e convivenza tra le culture, i migranti continuino a essere stigmatizzati in quanto portatori di una cultura vista come arcaica e quindi inadatta alla convivenza civile nelle società occidentali. In questa ottica anche i figli di migranti musulmani in Italia e altrove sono vittime di ciò che in riferimento alla scrittura etnografica Fabian [2000] ha chiamato “allocronismo”, ovvero il loro collocamento in un tempo altro.

Tuttavia in questo articolo ho cercato di mostrare che qualcosa di più antico, arcaico, profondo e radicato nei modi europei di percepire la differenza religiosa sia in gioco. Per motivi di spazio non ho potuto fare riferimento a tutta una letteratura che ha illustrato quanto l’idea di italianità sia legata alle sue “radici cristiane” [Grillo 2002; Salih 2009] – una questione che non a caso è diventata ancora più cruciale per la definizione dell’identità italiana (ed europea) a partire dalle cosiddette “crisi migratorie” degli anni Novanta [Bachis 2009]. Ma basti quanto esposto sopra per comprendere le ragioni che stanno dietro al carattere sottile ma sempre presente di un razzismo profondo verso l’Islam e i musulmani che anche nel contesto italiano, relativamente “a bassa tensione” rispetto a quello francese, riemerge continuamente negli interstizi della vita quotidiana.

I racconti di Ahmet, Salman, Emine, Nour, Ines, e Zahira ci mostrano questo lato quotidiano, “micro” ma pervasivo, del razzismo verso ragazze e ragazzi musulmani figli di migranti in Italia. Sebbene queste persone dichiarino di non essere state oggetto di attacchi razzisti o islamofobici diretti, durante il loro percorso scolastico sono state vittime di quello che ho qui denominato micro-razzismo: una forma di discriminazione che si insinua nel discorso quotidiano a scuola e nei luoghi di socializzazione dei ragazzi sotto forma di battute e comportamenti solo apparentemente minimi, che invece diventano momenti di demarcazione della differenza. Tali episodi si manifestano soprattutto a partire dalla scuola secondaria, in un momento cruciale per la loro formazione personale e identitaria. Che questi ragazzi decidano di omologarsi agli stili di vita italiani oppure di intraprendere percorsi identitari alternativi nei quali l’Islam diviene un elemento di catalizzazione identitaria e religiosa [Vicini 2021a, 2021b], la loro identità è profondamente segnata da questi momenti. Come indicato in particolare dai casi di Ahmet e Zahira, spesso lo sono anche i loro percorsi scolastici.

La nozione di razzismo culturale è utile a mettere in luce il passaggio che negli ultimi decenni è avvenuto da un razzismo di tipo prevalentemente biologico a uno più centrato sul differenzialismo culturale. Tuttavia in riferimento al caso qui considerato non è tanto l’appartenenza etnico-culturale dei miei interlocutori a essere oggetto dei processi di razzizzazione, quanto il loro legame con una tradizione religioso-civilizzatrice vista come in contrapposizione con i valori di libertà, laicità e democrazia di cui il mondo occidentale si attribuisce l’esclusiva. Rovesciando la prospettiva si può infatti affermare che se da un lato il razzismo per come lo conosciamo oggi trova le proprie radici nella storia di espansione europea degli ultimi cinque secoli e nei sistemi di classificazione delle popolazioni indigene ivi incontrate, dall’altro esso si incardina su contrapposizioni di ancora più lungo corso tra mondi, religioni, e civilizzazioni da sempre in contatto tra loro.

Se la contrapposizione tra Occidente da un lato e Islam e musulmani dall’altra non è quindi un elemento nuovo, essa è stata rinvigorita negli ultimi due decenni da un forte sentimento islamofobico che ha preso di mira gli stili di vita, di consumo, e di vestiario dei musulmani, questi visti come l’aspetto esteriore di una più profonda e viscerale differenza di spirito tra “noi” e “loro”. Come evidenziato nel contributo, i miei interlocutori sono stati discriminati da insegnanti e coetanei perché percepiti come i detentori di una visione del mondo vista come fondamentalmente altra rispetto a quella europea. Tale aspetto è indice evidente delle difficoltà con cui qualsiasi tentativo di sradicare stereotipi e pregiudizi così fortemente radicati nell’inconscio collettivo è costretto a scontrarsi: il fatto che l’opposizione all’Islam occupi da sempre un posto chiave nei processi di costruzione identitari occidentali. Essa affonda le proprie radici in diffidenze di lungo corso proprie della storia europea, che sono state consolidate in secoli di convivenza e sospetti verso le minoranze appartenenti agli altri due monoteismi abramitici. Ne consegue che ogni auspicio per un possibile superamento di tali forme di razzismo debba necessariamente passare per una rivisitazione critica delle auto-narrazioni occidentali circa la propria identità e la propria storia ancor prima che da una decostruzione degli stereotipi e dei luoghi comuni sull’Islam e i musulmani.

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1  Sebbene si sia discusso, e si continui a farlo, della possibilità di optare per una terminologia diversa come “razzismo” o “odio anti-musulmano” o “anti-islamico”, il termine islamofobia è ancora quello più utilizzato dagli stessi gruppi di musulmani attivi nella lotta contro il fenomeno. Non è tuttavia da escludere la necessità di riflettere ulteriormente su quale termine sia meglio adottare per descrivere e fronteggiare il fenomeno.

2  Qui e altrove dove non specificato, traduzione dell’autore.

3  Piasere [in stampa, 433-472] nota che il razzismo spirituale rappresenta l’altra corrente principale, anche se di minor successo rispetto a quella biologica, del discorso razzista fascista italiano. Inoltre osserva che seppur distinguibili analiticamente le due correnti non lo erano in sostanza, poiché entrambe finivano per affermare l’esistenza di una differenza ontologica tra le razze.

4  Sulla visione di ebrei e musulmani come principali espressioni di alterità e “nemici” nella storia moderna europea vedi Anidjar [2003]. Sul carattere co-costitutivo di razzismo e antisemitismo per l’identità europea vedi David [2001].

5  Inoltre non va certamente dimenticato che l’Islam ha storicamente rappresentato anche una minaccia esterna reale per l’Europa sin dal Medio Evo. Tale minaccia è stata esorcizzata soprattutto a partire dal XVIII secolo da una letteratura orientalista che ha teso a riprodurre l’immagine di un Oriente caratterizzato da oscurantismo e dispotismo in contrapposizione a un Occidente dipinto come progressista ed egalitario [Said 2004].

6  Tutti i nomi riportati in questo articolo sono fittizi al fine di tutelare la privacy dei miei interlocutori.

7  Questo può avvenire anche quando le persone sono mosse da buone intenzioni. Ad esempio, Amal mi ha raccontato di come un giorno mentre camminava con un compagno di classe per il corridoio, un professore si era avvicinato a loro esclamando: “Che bello vedere un italiano che cammina con una pachistana a scuola!”. La sua reazione iniziale era stata quella di farsi una grassa risata con l’amico, ma Amal – che era marocchina, e non pachistana – ha ammesso di aver poi riflettuto sull’episodio, pensando agli effetti negativi che poteva avere su altre persone come lei (Note di campo 16/4/2021).

8  Si prenda il caso di Jamila, una studentessa di origine tunisina di vent’anni. Quando l’anno precedente aveva risposto a un annuncio online per una casa in affitto a Brescia, l’inserzionista l’aveva ricontattata pensando che, data la capigliatura riccia notata sul suo profilo, fosse d’origine Sudamericana. Tuttavia una volta appreso che veniva da un paese arabo, le aveva detto che non le avrebbe concesso l’affitto (Note di campo 17/12/2020).

9   < https://www.laluce.news/ >

10  Vedi ad es. < https://www.theguardian.com/world/2016/aug/24/french-burkini-ban-row-escalates-clothing-incident-woman-police-nice-beach > Consultato l’11/4/2022.

11  Vedi il rapporto III Cage 2022, “We are beginning to spread terror”: The state-sponsored persecution of Muslims in France , Londra: CAGE Advocacy UK Ltd: < https://www.cage.ngo/we-are-beginning-to-spread-terror-report > Consultato l’11/4/ 2022.

12  Note di campo 24/11/2021.

13  Note di campo 19/2/2021.

14  Una delle figure di spicco che hanno cavalcato l’onda del femonazionalismo in Italia è stata Oriana Fallaci col suo La rabbia e l’orgoglio , Milano, Rizzoli, 2002.

15  Note di campo 12/3/2021.

16  Per queste ragioni l’anno successivo decise con la famiglia di trasferirsi in una scuola in città, dove si trovò molto meglio. Sebbene nessun’altra delle miei interlocutrici abbia cambiato scuola per ragioni analoghe, mi è stato riferito di altri coetanei che hanno dovuto compiere la stessa scelta di Emine per poter continuare gli studi con serenità.

17  Note di campo 10/4/2021.

18  Onde evitare queste situazioni, sarebbe opportuno che insegnanti preposti a fornire agli studenti competenze relative alla comprensione delle differenze religiose e culturali ricevessero una formazione adeguata in materie demoetnoantropologiche.

19  Note di campo 23/4/2021.

20  Note di campo, 26/11/2021.